di Federica Colonna
«Ricordate: il buon gusto non va in vacanza mai!». Con quest’angosciante monito Carla Gozzi – fashion blogger e co-conduttrice, insieme al re dei metrosexual italiani Enzo Miccio di Ma come ti vesti? – saluta i fan prima delle vacanze. La raccomandazione è un condensato di postmodernità. Il motto con cui descrivere lo Zeitgeist di oggi, lo spirito del tempo contemporaneo. Il presente ideale è evocato da quel “mai” finale: la vita di tutti i giorni è quella in cui l’eroe compie per bene azioni per niente epiche, di routine, come quella, esaltata, di vestirsi. Non c’è sogno, non c’è tensione verso il domani, ma solo una meravigliosa, regolata, quotidianità.

Real Time, i consigli di cucina della signora Anna Moroni, quelli ricchi di doppi sensi della popputa Antonella Clerici, il successo del libro Cotto e mangiato di Benedetta Parodi, le regole di Cortesie per gli ospiti, la fissazione dei partecipanti dei reality show nel voler sottolineare a tutti i costi la propria naturalezza, la loro profonda verità. Sono tutti frammenti di immaginario che uniti, come in un grande e strambo puzzle, rivelano il senso del tempo presente: l’epoca in cui il quotidiano ha preso il posto dell’utopia.

Il sol dell’avvenire è tramontato, il sogno è declinato al presente, il giorno per giorno è lo spazio in cui gli eroi dimostrano le proprie, per niente gloriose, capacità. Si è capovolto, nel racconto collettivo, tutto il Novecento, quando il quotidiano è stato descritto, dall’arte, dalla letteratura, dai prodotti televisivi, come luogo dell’assurdo, del quale venivano messe in luce l’originalità tragica, il dramma solitario, l’enigma. È il caso, per esempio, di Magritte: nei suoi quadri la vita quotidiana ha preso le forme degli oggetti di uso comune, come la pipa, trasformati in elementi di non sense, simboli dell’impossibilità di narrare e di comprendere l’esperienza, anche la più banale. Il maestro dell’allucinazione quotidiana è stato, invece, Franz Kafka. Nella sua Praga, «la città degli strambi e dei visionari», la vita d’ogni giorno è un labirinto in cui perdersi, impossibile da sopportare. Il quotidiano, poi, è distorto sotto i colpi linguistici della distopia: Philip K. Dick, per esempio, lo racconta come una parvenza fragile, al di sotto della quale si nascondono la pazzia e il nulla, come avviene nella serie tv The Prisoner, del 1967. L’uomo qualunque del Novecento è come un personaggio di Pessoa, nasconde nei gesti ripetitivi, nel viaggio normale d’ogni giorno, l’assurdo, l’originalità, il suo percorso può essere orientato in una sola direzione: l’utopia progressista.

Con la pop art inizia invece una grande mutazione culminata negli abitini da cocktail milanese della signorina Gozzi. La quotidianità diventa forma d’arte di per sé, non più in virtù di ciò che nasconde. Occupa ogni spazio d’immaginazione, prende il posto del meraviglioso. È avvenuto in ogni campo, a partire dalla politica. La comunicazione dei partiti, dei candidati, funziona quando usa un linguaggio pre-politico, di tutti i giorni, del tutto diverso dal lessico delle liturgie politiche novecentesche. La citatissima campagna elettorale di Barack Obama nel 2008 ha funzionato così, con il richiamo costante non alla lotta tra classi, non alle fratture e alle contrapposizioni del tessuto sociale, ma con l’evocazione degli uomini ordinari che fanno cose straordinarie. Come, per esempio, crescere i figli o andare a lavorare il lunedì mattina.

Persino la moda, ambito tipico del principesco, del lusso, della bellezza irraggiungibile, è diventata super prêt-à-porter. Chi se ne importa di Gucci, di Max Mara e di Valentino: il vero successo è delle blogger che mixano capi diversi, magari da pochi soldi e acquistati al mercato, e poi si fotografano per dimostrare la propria quotidiana creatività. Dove sono finite le splendide estati delle principesse monegasche? In un cestino della spazzatura, insieme all’ennesima foto della star americana senza trucco e con una bella cellulite.

La quotidianità, insomma, è storica, muta nel tempo, cambiano le parole, le narrazioni, il modo di intenderla. Le ragioni di una trasformazione così radicale dall’utopia alla normalità pop passano attraverso elementi diversi, come se il sangue del Novecento avesse lavato via tutti i sogni d’avvenire inglobanti e totali. Senza più complesse e complete visioni del mondo l’uomo s’è trovato a raccontare la vita spezzettata giorno per giorno. La rete ha reso il singolo individuo protagonista dell’immaginario collettivo, in grado non solo di assorbirlo, come per osmosi cognitiva, ma di co-crearlo, come un prosumer della realtà. Tutte le azioni normali di ciascun uomo ordinario compongono la vita del mondo intero e solo per questo sono degne di nota: ecco il senso del progetto Life in a day lanciato su YouTube da Ridley Scott. Un mega filmato con spezzoni di vita quotidiana raccolti in ogni angolo di pianeta, messi insieme per formare il racconto del mondo.

L’elogio della quotidianità, però, passa anche attraverso la mancanza di tempo. Il successo dell’how to do, delle trasmissioni e dei libri utili a spiegare come fare qualcosa, dal restauro del proprio scassato appartamento fino alle preparazione di una perfetta cena luculliana, nasconde un’ansia di perfezione angosciante, la volontà di contare solo su di sé e di primeggiare. L’esaltazione della vita quotidiana equivale a quella della propria persona, in una sorta di onanismo cibernetico senza fine.

La sociologia del quotidiano, da Giddens a Simmel, ci ha spiegato l’importanza di capire ogni più piccolo segno dello spirito del tempo, nascosto in un gesto, in una frase, in un prodotto venduto sul mercato. Ma senza sogni irraggiungibili si può poi andare così lontano?

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