Gustavo Raffi, gran maestro del Grande Oriente d’Italia l’aveva detto ancora poco tempo fa al Fatto Quotidiano (http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/04/01/tremila-massoni-a-rimini-alzano-il-cappuccio-trasparenza-si-forse-vedremo/101572/) : “Pubblicare gli elenchi degli aderenti? Quando lo faranno l’Arci e tutte le altre associazioni italiane”. Perché, sosteneva ancora, si potrebbero determinare forme di discriminazione per gli iscritti. Però la storia della massoneria degli ultimi decenni non depone a favore della riservatezza a cui si appella la principale loggia italiana, il Goi. Neanche in Emilia Romagna.

Regione che, dal dopoguerra in avanti, aveva dichiarato guerra a compassi e cappucci. Eppure il 17 marzo 1981 – dopo che la guardia di finanza inviata dai magistrati milanesi Gherardo Colombo e Giuliano Turone a Castiglion Fibocchi, provincia di Arezzo – dovette svegliarsi dal suo sogno di “immunità” e rendersi conto che nelle liste della loggia Propaganda 2, la P2 di Licio Gelli, c’erano anche conterranei.

Si trattava di Danilo Bellei (fascicolo 484), del colonnello Antonio Calabrese (485), di Renzo De Grandis (deceduto nel 1981, 433), del tenente Vittorio Godano (226), del generale Vittorio Lipari (capo del gruppo 13, 449), di Marco Paola (transitato poi in un’altra loggia, 462), del generale Osvaldo Rastelli (105), di Mario Santoro (77) e di Aldo Schiassi (924). Tra queste persone, ci fu chi ebbe più rilevanza di altre nella recente storia italiana.

Ad iniziare da Calabrese, braccio destro di un ufficiale dell’Arma dei carabinieri, il generale Giovambattista Palumbo, in forza alla divisione Pastrengo di Milano. Riscontri alla mano, il colonnello fu attivo all’interno della P2 a partire dal 1973, quando partecipava a riunioni con altri ufficiali nella residenza aretina di Licio Gelli, Villa Wanda, per stabilire nomine, cariche e assegnazioni. E lo era ancora il 2 agosto 1980, allo scoppio di una bomba alla stazione di Bologna che falciò 85 persone, quando Calabrese comandava la legione carabinieri di Bologna.

Gli altri furono magistrati, direttori di banca, funzionari pubblici che, quando non vennero coinvolti in indagini giudiziarie che portavano fino alla Sicilia dei Bagarella e dei Riina, dovettero rassegnare dimissioni o accettare demansionamenti. Senza tuttavia rinunciare a entrare nel dibattito pubblico per attaccare chi le indagini su P2 e terrorismo le faceva davvero, ospiti di testate come Il Messaggero sotto la direzione di Gianni Letta e con un organico che comprendeva giornalisti piduisti invitati anche a feste di capodanno insieme a personaggi del calibro del criminologo Aldo Semerari. Era proprio quel professore considerato un ideologo dell’estrema destra e il consulente di “comodo” della banda della Magliana e della camorra, senza distinzione tra Nco di Raffele Cutolo e Nuova Famiglia dei Bardellino, degli Zaza e dei Nuvoletta.

Ma se qualcuno avesse pensato che la tempesta scatenata anche in terra emiliana dall’affaire P2 fosse isolata si sarebbe presto ricreduto. Nella relazione di Tina Anselmi, presidente della commissione che indagò su Gelli e affiliati, venne scritto nel 1984: “La ‘Zamboni-De Rolandis‘ di Bologna e la ‘Emulation‘ di Tirrenia sono due esempi di logge realmente funzionanti o rimaste allo stadio di iniziativa ‘ereticale’ […], caratterizzate da particolare regime di riservatezza”.

Cosa si intendeva? Si parlava di organizzazioni massoniche che, all’interno di uno schema strutturati a livelli, prevedeva una sorta di dipendenza gerarchica – e di compenetrazione – tra il gruppo gelliano e logge locali. Particolare clamore poi fecero i nomi di alcune delle persone affiliate alla Zamboni-De Rolandis. Tra queste c’era Mario Zanetti, ai tempi a capo dell’Usl 28 e con una futura carriera della sanità emiliano-romagnola, nonché futuro simpatizzante della formazione che sostenne Romano Prodi nella sua corsa a Palazzo Chigi. Era l’anno 1996 e il manager pubblico, nel frattempo divenuto presidente dell’Agenzia sanitaria regionale, si farà vanto di aver collaborato alla stesura del programma del Professore in ambito sanitario.

Nella Zamboni-De Rolandis c’era poi anche il futuro rettore dell’università di Bologna Fabio Robersi Monaco, presidente della Fondazione Cassa di Risparmio e con un parterre professionale che comprende, tra i molteplici incarichi, l’attività forense, il cda della Treccani, la leadership della Fiera e un posto come consigliere d’amministrazione in Alleanza Assicurazioni. In sonno dal 1985, secondo quanto dichiarò, avrebbe “congelato” la sua affiliazione proprio per dedicarsi all’ateneo bolognese.

La vicenda della Zamboni-De Rolandis, riesplosa a fine anni Ottanta con inchieste sul mondo della medicina e di dentisti “d’oro”, è stata un terremoto per Bologna che vide scontrarsi frontalmente Partito comunista, socialista e Democrazia cristiana. Da un lato si chiedeva che gli iscritti alla massoneria, soprattutto quella più in odoro di malaffare, si allontanassero – o fossero allontanati – dai loro incarichi. Dall’altro, nelle stanze della politica, si rivendicava il diritto a mantenere i propri ruoli, ottenuti – si sosteneva – per criteri meritocratici e non per buoni numi massonici.

A tanti anni di distanza – e a fronte di nuovo di richieste di trasparenza in ambienti amministrativi e pubblici – sembra che il nodo del contendere di tre decenni fa non sia approdato a nulla di concreto nemmeno dal punto di vista politico. Tanto che dal 3 al 6 dicembre 2008, quando il Goi celebrò a Bologna il sessantesimo anniversario della Costituzione e della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, l’evento ebbe patrocinio e ospitalità della Provincia di Bologna. Nuova bufera sulla cosa pubblica locale proprio in scia di inchieste giudiziarie condotte negli anni precedenti che avevano riportato d’attualità vicende di sospetti concorsi truccati nel mondo della sanità del capoluogo e assegnazioni di incarichi in via preferenziale ad appartenenti alla massoneria.

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