Se a un giorno di distanza torno sul tema dei possibili scioperi organizzati in Italia e Spagna dai calciatori professionisti, non lo faccio per ribadire le ragioni esposte. Ciò che avevo da dire l’ho scritto ieri, e null’altro ho da aggiungere. Né ritorno sull’argomento per controbattere alle opinioni contrarie (quasi tutte espresse in modo civile) che in misura maggioritaria sono contenute nei commenti degli internauti al mio post. Tutte le opinioni hanno diritto di cittadinanza in questo spazio, purché non sfocino nell’intolleranza o nell’insulto.

Ritorno sull’argomento perché il post di ieri, così come altri che avevo lanciato nei miei due profili su Facebook durante i giorni scorsi, mi hanno fatto toccare con mano una verità: che la figura del calciatore, in questo paese e di questi tempi, è una fra quelle alle quali si guarda con maggiore insofferenza. La si percepisce come quella di un tipo socialmente viziato, privilegiato, irresponsabile e insofferente. E a questo punto, da parte mia, non conta insistere sul fatto che in questa descrizione si può far rientrare non più di qualche centinaio di individui impegnati nel massimo campionato, e che la stragrande maggioranza di coloro che fanno questo mestiere nelle categorie inferiori vive ben alte realtà.

Da sociologo, ho il dovere di registrare questa tendenza d’opinione e provare a rifletterci sopra. Per questo ho voluto riproporre l’argomento: per dibattere con voi sull’immagine del calciatore percepita in società. Vi sarei grato se mi aiutaste a far partire questo confronto. Magari alla fine avremo tutti quanti le idee un po’ più chiare.

P. S. Voglio inoltre precisare che i miei argomenti in favore dei calciatori si fermano alla disputa sul rinnovo del contratto nazionale di lavoro. Per quello che si riferisce alla polemica di queste ore, sul rifiuto aprioristico dei calciatori di versare il contributo di solidarietà imposto dal governo, ritengo che essi abbiano torto marcio. Quello sì che è un comportamento da viziati.

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