Sotto le stelle di San Lorenzo a cui si mescolano le luci lampeggianti degli aerei notturni, un susseguirsi di poesie segna la “tessitura delle cose perdute”, come la definisce la giovane poetessa Alessandra Cava. Assieme a Carlo Cuppini e Sara Ventroni, leggono le loro opere di una prorompente delicatezza, forse suggerita dal vento che non abbandonerà mai la rassegna dal titolo “Arte memoria viva” conclusa ieri al museo della memoria dove è ricostruito in parte il DC9, abbattuto il 27 giugno 1980. E la serata conclude una rassegna di linguaggi che a partire dalla data della commemorazione, si sono succeduti fino a ieri per narrare il ricordo e la vita che rivince la morte.

Dietro al palco, quasi inosservate, dagli oblò dell’hangar le luci delle 81 lampadine si accendono e si attenuano, proseguendo il loro respiro che mai si interrompe, come ricorda Daria Bonfietti, presidente dell’Associazione Parenti delle Vittime della Strage di Ustica, che nel giugno del 2007 ha dato vita  appunto al Museo della Memoria.

Frammenti di poesie, frammenti di voci, si uniscono ai frammenti dell’aereo.

Grazie all’opera di Christian Boltanski, l’installazione permanente che vede i resti dell’aereo incastonati in un hangar  e circondato da un intreccio di voci che si confondono, il vuoto è presente, in via Saliceto, a Bologna, impressionando la mancanza nell’immanenza. Stesso effetto ha ottenuto “La notte di San Lorenzo”, ideata e curata da Niva Lorenzini, progetto artistico di Francesca Mazza (accompagnata da Gino Paccagnella), che chiede “un atto di abbandono. Abbandono all’ascolto” in “un luogo di feroce bellezza”. Alla poesia, la notte del 10 agosto, nello sciame meteorico delle Perseidi, è assegnato il compito di esalare l’emozione: “non per spiegare, non per raccontare, ma per scavare e dissotterrare quello che è rimasto, quello che resiste, là sotto, ciò che spesso il rumore seppellisce e non serto per pudore o fraterna pietà”, svela la poetessa.

Come precedentemente abbiamo visto fare alla musicalità di Franck Krawczy (che ha aperto la rassegna), al teatro di Celestini, di Sabrina Petyx, di Spiro Scimoni. E la poesia – in una trama che va da Neruda ad Alberti, da Gottfried Benn a Giorgio Caproni e Antonio Porta, fino ai capolavori di Ungaretti e Montale – condotta dalle voci dolci e terribilmente profonde, a volte abissali, degli artisti, compie il suo incantesimo. Grazie all’arte, e alla tenacia Daria Bonfietti, dei parenti, e di persone che si sono schierata a fianco della battaglia civile e umana del ricordo, ieri sera si è assistito alla vita che germoglia dalla morte.

Una serata che risponde alla domanda della stessa Lorenzini: “Come si può raccontare la vita che si sospende in un attimo, trascinando con se memorie e affetti, progetti ed esperienze? E cosa resta, a chi viene dopo, di quel trauma, come lo si può trasformare da rito di celebrazione in momento attivo di impegno civile che coinvolga il rigore della denuncia e la difesa dei valori dell’umano?”.

Le musiche, composte appositamente da Alessandro Sodo, si fanno carico di riprodurre il rombo dell’aereo, le sue sirene, e immancabilmente “filigrane di voci”. Rumori artificiali alle spalle degli spettatori che si confondono a quelli reali, sopra i loro pensieri: ogni tanto passa un aereo decollato dal vicino aeroporto Marconi, che in questo modo fa sentire la sua presenza non priva di rimorso per quella partenza alle 20.08, due ore di ritardo. E che con molto, troppo ritardo, è stata raggiunto da brandelli di giustizia ancora oggi reticente e incompleta.

Rumori e voci che senti vibrare nella cassa di risonanza toracica.

A conclusione dell’evento, la presidentessa dell’Associazione, strappata a una visibile emozione, ringraziando sigilla: “Era proprio quello che volevamo: abbracciare questo museo con tutti i linguaggi che l’arte ci consegna. Quelle luci che ci sono là dentro, e che non si spengono mai, abbiano sempre voluto significare che la vita continua qui fuori, perché voler andare avanti si può e si deve. E bisogna fare memoria anche in questo modo”.

A testimonianza del fatto “che la morte regno non ha che sopra l’apparenza” (Ungaretti).

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