Il nuovo codice antimafia, appena approvato in parlamento e sbandierato tra i successi del governo Berlusconi, rischia di essere “un bel regalo ai boss”. Lo dice Giuseppe Lumia, senatore del Pd ed ex presidente della Commissione parlamentare antimafia. Ma la sua critica è condivisa dalle principali associazioni che si occupano del fenomeno – come Libera, Avviso Pubblico, Centro Pio La Torre – e dà voce a un malcontento diffuso tra magistrati e investigatori impegnati in prima linea nella guerra ai clan.

I punti dolenti sono diversi. Lumia parte dalla nuova disciplina dei beni confiscati, un tassello fondamentale della lotta alla criminalità organizzata, dato che i mafiosi mostrano di temere la sottrazione del loro patrimonio più della reclusione in carcere. Con in più il valore simbolico della riassegnazione di quei beni a fini pubblici o sociali. La nuova legge fissa un limite al tempo che può passare tra il sequestro e la confisca: 18 mesi, con due possibili proroghe di sei mesi con richiesta motivata del tribunale. “Il limite dei due anni e mezzo è troppo breve”, spiega Lumia a Ilfattoquotidiano.it, “le indagini patrimoniali sono complesse, soprattutto se parte delle ricchezze è nascosta all’estero. Questa è la prima finestra che il governo apre alla mafia, e rischia di diventare un portone”.

Un’altra “finestra” è la possibilità di revoca della confisca di un bene, anche se questo è già stato assegnato, e per esempio è diventato una caserma dei carabinieri o la sede di una cooperativa sociale. Mentre prima la confisca era definitiva, con il nuovo testo chi esce assolto da un processo per mafia può chiedere la restituzione di quanto gli è stato tolto dallo Stato. Ineccepibile garantismo, a prima vista. Invece la questione è più complicata: “La norma azzera la grande intuizione di Pio La Torre sull’attacco alle ricchezze della criminalità organizzata”, continua Lumia. “Il processo penale e le misure di prevenzione seguono percorsi diversi. Un soggetto può anche essere assolto dall’accusa di 416 bis, ma se è inserito in un ambiente mafioso, se controlla decine di società e di immobili pur dichiarando un reddito di poche migliaia di euro, è ovvio che il suo patrimonio è di origine illecita, a meno che lui non riesca a dimostrare il contrario”.

Il nuovo codice antimafia, insomma, è “una grande occasione attesa da anni da chi si occupa di lotta alla mafia, ma il governo ha fatto prevalere altre ragioni”, afferma il senatore del Pd. Mettendo insieme i limiti di tempo per le confische e la possibilità di revoca, “la mafia può percepire che è arrivato un segnale”. E forse un altro segnale è la mancata modifica dell’articolo 416 ter, quello che punisce il voto di scambio, ma solo se il politico offre “denaro” al mafioso in cambio di preferenze elettotrali. Un caso assai raro, e infatti da tempo investigatori ed esperti chiedono all’unisono che la norma sia estesa ai casi ben più concreti di voti “comprati” in cambio di appalti, finanziamenti pubblici, autorizzazioni, licenze, assunzioni… Una richiesta caduta completamente nel vuoto: il 416 ter non è stato neppure toccato.

Non è solo l’opposizione a distillare giudizi drastici. “Il termine rigido tra sequestro e confisca del bene ricorda il cosiddetto processo breve”, osserva Pierpaolo Romani, coordinatore nazionale di Avviso pubblico, la rete di oltre 180 enti pubblici contro le mafie. “Certo che tempi più brevi sarebbero auspicabili, ma per fare questo lo Stato dovrebbe fornire maggiori risorse agli investigatori e ai tribunali. Se no il sistema non regge”. Proprio sul sito di Avviso pubblico è possibile leggere l’ultima relazione della Corte dei conti sull’argomento, dalla quale emerge che oltre la metà dei beni confiscati alle cosche resta inutilizzata per la lentezza delle procedure. E che, dal momento del sequestro, “servono ancora tra i 7 e i 10 anni per giungere alla confisca definitiva dei beni e al loro successivo riutilizzo”.

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