Il 2 luglio scorso il giudice della Corte Suprema dello Stato di New York ha annullato una pronuncia di un arbitro in un caso che vorrei illustrarvi.

Il protagonista di questa storia è Christopher Asche,  che prestava servizio da oltre vent’anni nella biblioteca di una scuola superiore, nel cuore di Manhattan. Condotta irreprensibile per l’intera sua carriera. Non un monito, non un rimprovero in vent’anni.

Un giorno viene accusato di aver molestato dei ragazzi del liceo all’interno della biblioteca. Alcuni di questi, infatti, avevano segnalato di essere stati “toccati impropriamente” da Asche mentre studiavano nella biblioteca.

Un arbitro, nominato dal dipartimento dell’istruzione, era stato incaricato di risolvere il caso. L’ha fatto dopo dodici udienze e tre mesi di processo, durante i quali il bibliotecario è stato rinchiuso in quella che i giornalisti chiamano la “rubber room” (letteralmente la “stanza di gomma”), cioé un Istituto correttivo per insegnanti violenti, problematici o semplicemente “incompetenti”. Una sorta di manicomio, insomma. Le indagini condotte dal pubblico ministero e volte a verificare se vi fossero gli estremi per l’apertura di un procedimento penale per molestie, non hanno avuto esito: il pubblico ministero ha archiviato il caso. Inoltre, nessuno degli studenti aveva denunciato atti “sessuali”, ma solo condotte che consideravano “inappropriate”. Curiosi di sapere di cosa stiamo parlando? Bene: di pacche sulla spalla.

Cose innocenti, insomma, dettate dall’obbligo di silenzio che vige in biblioteca e così giustificate dalla volontà di non disturbare un luogo ritenuto sacro per lo studio.

Ed invece, guarda caso, l’arbitro ha sentenziato che Asche dovesse essere sospeso per sei mesi, non solo dal lavoro ma anche dallo stipendio e dal trattamento pensionistico.  A nulla sono valse le difese del povero Asche, che ha anche portato tra i testimoni a favore una collega, anch’ella bibliotecaria, che faceva esattamente la stessa cosa: una pacca sulla spalla allo studente o alla studentessa alla quale volesse comunicare qualcosa senza disturbare gli altri intenti a studiare.

Per fortuna, Asche ha impugnato la sentenza e il giudice della Corte Suprema l’ha annullata.Non vi è nessuna base razionale per stabilire che il suo toccare gli studenti, nello stesso modo con cui li toccava una sua collega eterosessuale, costituisce qualcosa di improprio, specialmente considerati i 20 anni di onorato servizio“.

Che c’entra che la sua collega sia eterosessuale? Il particolare, che non ho voluto svelare subito, è che Asche è gay dichiarato. Questo è quindi un caso tutt’altro singolare, quindi, che offre l’idea di come sui gay penda sempre un pregiudizio, che permane nella società anche quando lo stato dei diritti civili è molto avanzato. “Non mi importa se sei frocio, ma non toccarmi!” potrebbe essere la logica perversa sottostante a questa causa. Come quelli che appena vedono due uomini o sue donne tenersi per mano o baciarsi (se si escludono i machisti, cioé la maggior parte degli italiani, che si eccitano a vedere due donne insieme) chiamano i carabinieri.

Dovremmo tutti realizzare che l’omosessualità non è una malattia, che essere omosessuali non significa automaticamente essere dei pervertiti o dei criminali, e che tenersi per mano o baciarsi in pubblico non è un crimine, ma un diritto costituzionale. Se non ti piace, voltati dall’altra parte e continua a camminare per la tua strada.

[Il caso citato è Asche v. New York City Board of Education, 108528/10, in New York Law Journal, 30 giugno 2011]

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