In un giorno remoto della mia vita ho giurato che non avrei letto un solo libro di quelli imposti dalla televisione o dal mercato, a costo di rimanere fuori dal coro, solo come un cane, fuori da tutto. In quello stesso giorno mi sono dato una regola: commemorare le ricorrenze della letteratura leggendo, o rileggendo, gioiosamente e al di sopra del gioco delle parti, gli autori amati, quelli appena scoperti, quelli dimenticati e quelli stracelebrati.

È con questo spirito che da un po’ di giorni ho preso in mano Camere separate di Pier Vittorio Tondelli (editore Bompiani), l’opera che per certi versi costituisce il testamento spirituale dello scrittore di Correggio. In questo 2011 infatti ricorre il ventennale della morte di Tondelli, avvenuta il 16 dicembre del ’91 (dite pure che me la sono presa con un po’ d’anticipo). Romanzo amatissimo dalla critica, Camere separate – che racconta la vicenda straziante, in gran parte autobiografica, di Leo, scrittore di successo consumato dal dolore per la perdita del compagno Thomas, morto a venticinque anni in un ospedale di Monaco per una malattia incurabile – offre in realtà l’occasione di immaginare quello che Tondelli sarebbe potuto essere e non è stato.

Lui – il cantore di quei “disperati” anni ottanta, l’apolitico, il viaggiatore infaticabile, il libertino, l’uomo con profonde, corrosive pulsioni religiose – rappresenta compiutamente la grande occasione perduta dalla narrativa italiana, la possibilità di rimanere al passo coi tempi e con la grandezza della sua tradizione novecentesca. Tondelli non è, come dicono ancora in molti, il precursore dei Cannibali e della scena Pulp che si è sviluppata in Italia negli anni novanta. Tirarlo a forza dentro quella storia, così debole e marginale, significa peccare di superficialità, o peggio ancora attribuirgli la responsabilità del tracollo complessivo della recente letteratura italiana. Tondelli, al contrario, ha tracciato un’imbastitura, una possibilità concreta di rinnovamento dei nostri canoni letterari, lontano dai fenomeni costruiti dall’editoria, dentro uno stile autentico, reale, puro, che conserva i segni di quella tradizione che va da Bianciardi a Pasolini, e che si schiude come un sintomo, come un presagio, alle possibilità di una letteratura del futuro.

Non solo, Tondelli è stato l’ultimo autore italiano compiutamente internazionale. Lo è stato non tanto perché il suo nome sia particolarmente noto ed apprezzato all’estero, quanto perché la sua scrittura ne possiede il tono, il respiro, l’ambizione. Dopo di lui è stato tutto un rinserrare di storie che stanno nei ranghi di uno spento provincialismo di maniera. Nessuno che abbia osato volare oltre le vette di quei campanili, nessuno che si sia arrischiato sui terreni battuti dai giganti.

Sfuggente alle demarcazioni della politica, lui stesso scrisse che una sera, trovandosi fra gli studenti della Pantera, sentì verso di loro “una specie di ostilità”, motivando quel sentimento con parole brucianti: “Perché sono ancora, in questo momento, lo spaurito studente di quindici anni fa che sente la propria separatezza dalle ragioni e dalle lotte degli altri come una condanna inappellabile”.

Ecco, dunque, l’augurio è che il ventennale della scomparsa di Tondelli rappresenti l’occasione per liberare la sua figura da appropriazioni postume e letture tendenziose e ideologiche della sua opera (provenienti sia da sinistra che dal mondo cattolico), per restituirlo all’unico ambito a cui appartiene per diritto, quello della vera letteratura. Anche se – come annotò lui stesso con grafia tremante, poco prima di morire, tra le pagine di un’edizione della Prima lettera ai Corinti“la letteratura non salva mai”.

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