Il 19 febbraio del 1781 il ministro delle finanze francese, l’economista di origini svizzere Jacques Necker, rese noti i conti dello Stato. I sudditi di re Luigi XVI scoprirono così che il regno ogni anno spendeva 629 milioni e incassava dalle tasse – pagate quasi esclusivamente dal popolo e dalla borghesia – 503 milioni. Il debito pubblico aveva per questo raggiunto i 318 milioni, mentre la corte ogni 12 mesi continuava a costare 38 milioni. Tutti soldi che se ne andavano in spese personali, vitalizi e pensioni.

Questo dato, otto anni dopo, fu una delle cause che portò alla rivoluzione e alla successiva decapitazione del re e di sua moglie Maria Antonietta.

Oggi, pur essendo felicemente certi che le teste dei nostri parlamentari (sempre che qualcuno sia in grado di trovarle) resteranno in eterno attaccate ai loro pregevoli colli, è impossibile fare a meno di sottolineare il parallelismo tra quella lontana epoca storica transalpina e quanto sta accadendo in Italia.

Mentre il premier, Silvio Berlusconi, come Luigi XVI, resta asserragliato nelle sue regge e, secondo i giornali, dorme di giorno, si consulta con i fedelissimi  e organizza a sera “cene eleganti”, il ministro dell’Economia Giulio Tremonti, prima (il 24 giugno) tenta timidamente di dare un taglio ai costi della politica. Poi, quando gli fanno capire che non è aria, rimanda tutto al 2013. E alla fine, ringraziando apertamente la gentile collaborazione delle opposizioni, far approvare in tempo record una manovra che forse servirà per allontanare per qualche giorno il Paese dal naufragio delle borse, ma che certamente non eviterà il crescere dell’ira degli italiani, fino a livelli di guardia.

Un osservatore distratto potrebbe chiedersi il perché di questa follia. Normalmente in democrazia quando una classe dirigente chiede ai cittadini di stringere la cinghia fa qualche gesto per dimostrare (magari per finta) di partecipare al sacrificio comune.

Negli Stati Uniti, per esempio, dove i 475 componenti dello staff della Casa Bianca guadagnano cifre risibili rispetto a quelli di Palazzo Chigi (gli stipendi più alti sono di circa 120mila euro, mentre quello del presidente non arriva a 300mila), Obama ha congelato i salari dei suoi collaboratori superiori ai 100mila dollari e ha annunciato la necessità di ridurre il suo. Ha fatto cioè una mossa che punta a ottenere il consenso degli elettori, in vista delle presidenziali del novembre 2012.

I nostri politici, invece, questa necessità oggi non la sentono. Anzi non la hanno. Per loro le priorità sono altre. Berlusconi, per esempio, ormai vuole solo che il suo governo arrivi al 2013 perché spera di poter continuare a preservare la sua roba e a condizionare i suoi processi. I ministri puntano poi a stargli al fianco il più a lungo possibile perchè, in caso di elezioni anticipate ben difficilmente si ritroveranno (subito) al potere. Per loro il problema non è  più avere il consenso degli elettori, ma di conservare quello dei loro parlamentari. Sono i peones alla Scilipoti, infatti, che sorreggono l’esecutivo. Quindi il primo obbiettivo è non farli arrabbiare.

Anche per questo non si interviene sui costi della politica. E non lo si fa a nessun livello, visto che nel nostro Paese, in maniera assolutamente bipartisan, ci sono un milione e 300mila persone che vivono, direttamente o indirettamente, di politica. Amici, parenti, ex camerati ed ex compagni. Gente che grazie all’attività di partito (magari condotta nell’onestà e buona fede più assolute) ha pianificato la propria esistenza presente, passata e futura. Gente che se fosse costretta ad andare a casa non saprebbe proprio cosa fare. Vi dice niente, a questo proposito, l’astensione di parte dell’opposizione sull’abolizione (mancata) delle province?

È ovvio e giusto che la democrazia abbia un prezzo. Ma non c’è nulla né di sensato, né di giusto in una gigantesca e inefficiente macchina che, secondo molte analisi, costa (a partire dalla Presidenza del consiglio, per arrivare all’ultima delle società private a capitale pubblico) circa 24 miliardi di euro. Possibile che non sia il modo di essere democratici spendendo quanto si spende in Gran Bretagna o in Francia?

Domanda retorica. Questa, con il suo Luigi XVI in testa, è la vera aristocrazia dei nostri tempi. Un’aristocrazia che in questi giorni, con gli interventi draconiani della finanziaria, sta lottando per salvare il Paese. Ma che è anche in lotta per preservare se stessa.

Ce la farà a sopravvivere? Noi pensiamo di no. Ma, paradossalmente, diciamo purtroppo. Perché, seppure all’orizzonte non si scorgono sanguinose rivoluzioni di popolo (e questo è un bene), non bisogna essere Nostradamus per capire quanto resti alta la probabilità che la manovra finanziaria appena approvato dal senato si riveli durissima, ma insufficiente.

A non considerare credibile la nostra Casta, non sono più solo gli italiani.  La finanza mondiale, i mercati, la stampa internazionale e i governi degli altri Stati, tutti hanno dei nostri eroi questa opinione. E le classi dirigenti del Belpaese sono ormai viste come un virus che mette a rischio la fragile stabilità dell’intera Europa.  Arriveranno, insomma, altre sberle. Serviranno altri interventi. Altre tasse, altri tagli e, forse, persino una patrimoniale.

Solo allora, e non ieri come ha precipitosamente detto il presidente Napolitano, i tempi saranno maturi per il “vero miracolo”: la fine di questa sfortunata e martoriata seconda Repubblica. Ma saranno tempi duri. E, purtroppo, più per i cittadini che per loro.

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