Non si arresta l’attacco ai Btp italiani e, in fin dei conti, non potrebbe essere altrimenti. Mentre i titoli bancari continuano a precipitare, con Intesa che chiude a -7,38% e Unicredit a -6,41%, i fondi hedge lanciano una nuova offensiva scatenando il panico nel mercato e trainando gli investitori in una corsa alla cessione dei bond sovrani. Lo spread tra i decennali italiani e i bund tedeschi aggiorna continuamente il proprio record storico allargandosi ad una velocità senza eguali. Alle 17, ora di chiusura delle borse, il dato si attestava a quota 305, una cosa mai vista. Ed è con queste premesse che inizia la settimana di passione delle finanze italiane.

Ma chi c’è dietro all’attacco speculativo sui titoli sovrani? Gli osservatori non hanno dubbi, in prima fila ci sono soprattutto gli hedge. Un dato niente affatto scontato visto che ultimamente a guidare le strategie short erano stati in alcuni casi i fondi comuni (Etf), responsabili ad esempio della speculazione ribassista sul Nikkei nei giorni del post terremoto giapponese (quando gli hedge, al contrario, erano andati decisamente “lunghi”). Secondo il Financial Times, a spingere al ribasso i titoli italiani sarebbero soprattutto i fondi speculativi Usa, promotori di una strategia “corta” che segna in qualche modo una mini frattura rispetto al passato: colpire direttamente i titoli invece che speculare sui derivati assicurativi, i famosi o famigerati Credit default swaps – Cds che coprono il creditore dal rischio bancarotta dell’emittente (nel caso dei bond sovrani le banche nazionali).

Il motivo è presto spiegato. I Cds vengono liquidati come polizza assicurativa al fallimento del debitore. Chi li ha acquistati in massa senza esporsi sul debito ovvero scommettendo sul default (a differenza di una comune polizza i derivati possono essere acquistati anche da chi non possiede il sottostante, quindi ad esempio posso comprare Cds sul debito greco senza caricarmi di obbligazioni di Atene) si porta a casa profitti da sogno. E’ con questa tecnica che il finanziare John Paulson ha beneficiato come forse nessun altro del crack di Lehman Brothers, il cui costo assicurativo, per altro, risultava molto basso visto che le agenzie di rating avevano sempre giurato sulla solidità della banca americana. Il problema, però, è che sui Cds a protezioni dei titoli sovrani si è aperto da un po’ un tesissimo dibattito contrattuale. In caso di default “morbido” della Grecia, un “rollover” o un “reprofiling” per dire, i Cds dovrebbero essere liquidati? C’è chi dice di sì, ma forse le banche americane, principali emittenti dei Cds su Atene, la pensano diversamente. Meglio dunque evitare la strada dei derivati speculando direttamente sui titoli sovrani.

Ed ecco che l’Italia si trasforma in un attimo nella vittima perfetta. Con i rendimenti dei titoli calati e non poco dopo i picchi negativi di novembre, i margini di una strategia ribassista apparivano fin troppo attraenti: l’occasione, insomma, era troppo ghiotta. Se ne sono convinti in fretta fondi hedge che da venerdì stanno pesantemente “shortando” (ovvero speculando al ribasso) i Btp generando un circolo vizioso che coinvolge, per panico, tutti gli investitori. E qui le cose si complicano perché a questo punto a risentire del danno sono anche i Cds che, una volta tanto, entrano nella giostra speculativa sul fronte degli “effetti” più che in quello delle “cause”. E il cui aumento di valore lancia implicitamente segnali negativi al mercato giustificando ancor di più la speculazione. Preoccupanti, in questo senso, i dati diffusi dalla società londinese di indagine Cma nella sua ultima rilevazione giornaliera. Il costo assicurativo del debito italiano a 5 anni tocca ormai i 267 punti base (267 mila euro per assicurare 10 mln in Btp) contro i 170 registrati a fine giugno. Nello spazio di una sola giornata, riferisce Cma, l’Italia ha visto aumentare il prezzo dei suoi Cds di oltre 20 punti base. Il peggior risultato giornaliero. Come conseguenza, la probabilità di bancarotta dell’Italia da qui a 5 anni è salita al 21,4% (per un raffronto: la Spagna sta al 25,4, l’Irlanda al 55,5, il Portogallo al 60, la Grecia all’84) contro il 19,3% registrato nel momento più critico di quest’anno, ovvero sei mesi fa. In altre parole, e per quanto è bene ricordarlo si tratti ancora di un evento largamente improbabile, non siamo mai stati così a rischio fallimento come oggi.

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