Non è difficile capire che l’approvazione da parte dello Stato italiano di una normativa che consenta di oscurare i siti web sarebbe ingiusta. In primo luogo si tratterebbe di un provvedimento di censura nei confronti di Internet. Alcuni anni fa, i Paesi che si dichiaravano liberi non avrebbero mai osato fare una cosa del genere, ma l’Italia già filtra l’accesso a siti stranieri (come thepiratebay.org) e ora sta progettando una forma di censura per i siti italiani. Ma c’è di più e di peggio: siamo in presenza di una forma di censura in assenza di un giudizio della magistratura. E in questa maniera si aggira un principio fondamentale della giustizia. Ed è per questa ragione che questo provvedimento è ingiusto.

Ma per quale motivo lo Stato italiano sembra disposto a sfidare apertamente i principi fondamentali della giustizia in questo delicato settore? Il regime di Obama si dice favorevole alla nuova normativa. Per quale motivo gli Stati Uniti auspicano la censura in Italia? Obama ha stretti legami con le case discografiche e cinematografiche ed è favorevole alla censura di Internet negli Stati Uniti. Evidentemente queste aziende hanno un’influenza sul governo americano e, apparentemente, anche sul governo italiano. La nuova normativa è opera loro. Perché propongono uno strumento così palesemente ingiusto? La condivisione è positiva, è utile e Internet la rende semplice.

Di conseguenza gli utenti di Internet si scambiano materiali e solo misure draconiane potrebbero impedirglielo. Queste aziende non potranno mai conseguire i loro obiettivi nel rispetto dei principi della giustizia. Se questo attacco non riuscirà a bloccare la condivisione, ci proveranno con mezzi ancora peggiori. Hanno già provato a fare in modo che il vostro software si rivolti contro di voi inserendo funzioni malevole che limitano l’utilizzo dei dati del vostro computer. (Possono imporre restrizioni attraverso il vostro software se il software non è libero; vedi gnu.org.) Poi hanno approvato una direttiva dell’Unione europea per impedire ai cittadini di rompere queste “manette digitali”. Ma gli utenti lo fanno lo stesso. Le aziende liquidano le obiezioni ponendo una domanda: “La pirateria è un grosso problema e se non la fermiamo così, come ci suggerite di fermarla?”. La risposta è: “Mandate le navi da guerra nell’Oceano Indiano”.

Chiamare “pirati” gli utenti che utilizzano lo sharing in rete è come dire che aiutare gli altri equivale moralmente ad attaccare una nave. Siamo su un altro pianeta: attaccare una nave è una pessima cosa, la condivisione è un’ottima cosa. Per gli utenti di Internet il vero problema è rappresentato da queste aziende e dai loro incessanti attacchi agli utenti che condividono in rete. Come fanno queste aziende ad ottenere l’appoggio dei governi per attaccare la libertà degli internauti? Con il denaro e in più con un pretesto. Il denaro convince in diversi modi, ma i politici non possono addurre come motivazione il denaro. Hanno bisogno di un pretesto. Il pretesto fornito dalle aziende titolari dei diritti d’autore è che loro sostengono gli artisti. Questa affermazione contiene una modesta dose di verità, la qual cosa non ci consente di definirla una grossolana bugia. Il denaro per sgocciolamento dalle aziende titolari dei diritti d’autore finisce anche agli artisti. Pochissimi divi diventano ricchi, ma la maggior parte degli artisti anche popolari non riescono nemmeno a sbarcare il lunario. Se sono veramente gli artisti che ci stanno a cuore dovremmo trovare un altro modo per sostenerli. Io ne ho proposti due. Un primo modo consiste nell’imporre una tassa sulle connessioni Internet e distribuire il gettito direttamente agli artisti (non alle aziende) sulla base della loro popolarità misurata mediante sondaggi. Per utilizzare il denaro in maniera efficiente dovremmo calcolare la quota di ogni artista in base alla radice cuba della sua popolarità. Ad esempio, se la superstar A è 1000 volte più popolare dell’artista B, ad A deve andare una somma di denaro dieci volte superiore rispetto a B.

Con questo sistema una superstar guadagnerebbe pur sempre più degli altri, ma la maggior parte del denaro servirebbe a garantire un giusto reddito a numerosi artisti non di primissimo piano, ma popolari. Con questo sistema gli artisti se la passerebbero meglio e si risparmierebbe. L’altro modo consiste nel dotare ogni sistema di riproduzione del suono di un pulsante col simbolo dell’euro. Premendolo si invia anonimamente 1 euro agli artisti che hanno suonato e cantato l’ultimo pezzo. Chi è povero non preme mai il pulsante. Chi non è povero può premerlo una volta la settimana o una volta al giorno. Non è una grossa somma e quindi perché non regalarla all’artista che ci piace? Sono possibili anche altri metodi. Il problema appare difficile solo perché cerchiamo di risolvere il problema sbagliato: “Come possiamo consentire alle aziende titolari dei diritti d’autore di conservare la loro posizione di privilegio?”. Se affrontiamo il problema giusto – “come possiamo sostenere gli artisti incoraggiando la condivisione?” – allora ci accorgiamo che non è di difficile soluzione.

di Richard Stallman, il fondatore della Free Software Foundation Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

Dal Fatto Quotidiano del 7 luglio 2011

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