Da oggi l’antimafia è una crisalide. Che non vola, che non può volare. Si chiama Denise. È lei il nuovo simbolo. Glielo avessero chiesto qualche anno fa avrebbe detto “no, grazie”. Chiunque avrebbe urlato di no, di fronte alla storia devastante che le sarebbe arrivata addosso da adolescente. La madre in fuga dal proprio destino di famiglia mafiosa e insanguinata. Che cerca il grembo comprensivo dello Stato e si vede mettere alla porta perché quel che sa e può raccontare non è poi così decisivo per le indagini. Questa stessa madre, infine, sequestrata, torturata, uccisa e sciolta nell’acido per vendetta. Colpevoli, secondo l’accusa, il marito e i suoi fratelli della famiglia dei Cosco. Originaria di Petilia Policastro ma trapiantata a Milano, dove il delitto infame si è compiuto.

Non c’era Denise, ieri mattina, al processo che cerca di darle giustizia per quella storia da accapponar la pelle. Se ne stava rinchiusa in qualche bozzolo lontano e sconosciuto, nella speranza un giorno di potere spiccare il volo senza rischi. C’era suo padre, invece. C’erano i suoi zii. C’era quello che lei riteneva il suo fidanzato e che invece le era stato messo alle costole dal padre per tenerla sotto controllo. Tutti e quattro nella gabbia con altri due compari. Capelli rasati, jeans e magliette, qualcuno con le braccia aggrappate o addirittura conserte intorno alle sbarre, qualcuno seduto in retrovia; talora assorti, talora increduli o ridanciani.

Da una parte i parenti e gli amici, molte bottigliette d’acqua, qualche zeppa femminile e qualche fisico palestrato, gli anziani molto più bassi dei giovani, una solidarietà affettuosa e compiaciuta. Sorrisi e baci e gesti ammiccanti verso le gabbie, strette di mano in corridoio agli imputati benché con le manette. Sarà stato il ritrovarsi tutti insieme, sarà stata quell’aria mista di rimpatriata e matrimonio, ma davvero non sembrava che sul mondo dei presenti incombesse quell’accusa terribile, la giovane donna sciolta nell’acido dai messaggeri della Calabria più oscena. Scorrendo i volti giocosi sembrava piuttosto che si dovesse celebrare un videogioco. La realtà come finzione e la finzione come realtà, se è vero che l’altro giorno all’ultima udienza del processo Bad Boys di Busto Arsizio una ragazza dei clan, sentendo l’annuncio della corte che si ritirava a deliberare, ha esclamato “sembra di essere a Forum”. Solo che Lea che non c’è più non è affatto una finzione.

Per questo la sua vicenda è diventata per molti uno spartiacque civile, una frontiera morale. Per questo ieri erano in aula le insegnanti dei licei più attivi nella lotta alla mafia, il Virgilio, il Volta, il Porta, il Besta. O gli studenti di Scienze politiche di “Stampo antimafioso”. C’è una Milano che ha deciso che la crisalide non debba essere abbandonata a se stessa per la seconda volta. E ha voluto stare accanto alle due avvocatesse di Denise, Enza Rando e Ilaria Ramoni, e all’avvocato fiorentino Roberto D’Ippolito che rappresenta la sorella e la madre di Lea. Nel frattempo gli avvocati dei Cosco combattevano la costituzione di parte civile della Regione Calabria, della Provincia di Crotone e del Comune di Milano. Dove sarebbero mai, chiedevano associandosi ognuno alle parole dell’altro, gli interessi concretamente colpiti? Sono scelte, dicevano, che hanno solo una natura mediatica, uno scopo politico. Il solito copione degli ultimi decenni. Ma a Milano era la prima volta. E alla fine il Comune guidato dal sindaco Pisapia è stato ammesso. Per la città una grande vittoria di principio. Poi gli scenari di rito. Le difese che proponevano le solite eccezioni rivolgendosi insistentemente, chissà perché, ai giurati popolari, quasi li ritenessero più malleabili alle proprie ragioni. E loro, i giurati, che ascoltavano compunti, chi con la fascia tricolore chi senza. La crisalide avrà saputo dopo come è andata.

Ma c’è un messaggio che giunge da Milano: la frontiera morale dell’antimafia oggi è lei. Meglio, è il caso di una ragazza di diciotto anni che chiede aiuto e sostegno all’Italia civile. Sullo sfondo, una Milano che si ribella ai clan mentre la ‘ndrangheta pretende di farle digerire le sue regole, acido compreso. A volte i simboli nascono per caso.

Il Fatto Quotidiano, 7 luglio 2011

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