Il conto alla rovescia accelera. La Freedom Flotilla 2 – «Restiamo umani» è pronta a salpare verso Gaza, anche se la data precisa dell’inizio della traversata rimane segreta per motivi di sicurezza. Questi ultimi giorni prima dell’avvio della nuova missione per rompere l’assedio che stringe un milione e mezzo di palestinesi sono carichi di tensione.

Mercoledì gli organizzatori hanno diffuso la notizia che una delle navi del convoglio, la Saiorse, è stata sabotata. La Saiorse, allestita dal ramo irlandese del Free Gaza Movement, assieme a molti comitati locali, è ancorata in acque turche e secondo quanto riporta la giornalista israeliana Amira Hass dalle pagine del quotidiano Haaretz, il danno riguarda il motore della nave. Dalle prime indagini, il tipo di danno avrebbe potuto causare l’affondamento della nave, in mare aperto, con grandissimo rischio per la vita degli attivisti a bordo. Dror Feiler, portavoce della Flotilla, ha detto alla radio militare israeliana che, per quanto non ci siano prove dirette del coinvolgimento israeliano, «il governo israeliano è l’unico che ne trarrebbe beneficio». Feileri, che ha avuto modo di ispezionare il vano motore della Saiorse, ha detto che il danno sembra essere stato fatto in modo molto professionale.

La Saiorse è la terza nave del convoglio a subire danni «insipiegabili». Altre due navi, allestite dai comitato svedesi e greci, sono state danneggiate nel porto ateniese del Pireo nei giorni scorsi. In particolare, la motonave «Giuliano», alla fonda nello scalo ateniese, ha subito danni molto pesanti. Lunedì, gli attivisti hanno trovato che l’albero di trasmissione, quello che collega il motore all’elica, era stato segato. Un lavoro da sub esperti, che secondo gli organizzatori del convoglio, non lascia dubbi sulla firma.

Dopo i danni, gli attivisti hanno organizzato turni di sorveglianza attorno alle navi, compresa l’imbarcazione italiana, la «Stefano Chiarini», all’ancora a Corfù. La nave italiana, intitolata al giornalista del manifesto morto improvvisamente nel 2007, aspetta che arrivi l’ordine di partire. E non sarà facile averlo.

Amira Hass, una dei due giornalisti israeliani che viaggeranno assieme al convoglio, scrive che le autorità greche stanno frapponendo infiniti ostacoli burocratici alla partenza della Flotilla. Lunedì due ispettori portuali del Pireo si sono presentati per condurre un’ispezione a sorpresa sulla nave canadese «Tahrir», nonostante l’imbarcazione fosse già stata ispezionata dall’International Naval Surveys Bureau e dichiarata adatta alla navigazione. I «problemi» più grossi sembrano agitarsi attorno alla nave statunitense, che non ha ancora ricevuto l’autorizzazione a prendere il mare.

Secondo gli organizzatori della Flotilla, non ci sono dubbi: tutte le difficoltà burocratiche dipendono dalle pressioni che dietro le quinte il governo israeliano sta esercitando su quello greco, per impedire che il convoglio possa fare rotta verso la Striscia di Gaza. Gli attivisti, però, non mollano, anche se le navi della flotta saranno probabilmente meno delle dieci originarie, a meno che non si riescano a riparare rapidamente i danni subiti dalle navi sabotate.

Il governo israeliano, intanto, oscilla tra i toni allarmistici e quelli rassicuranti. Il ministro della difesa israeliano Ehud Barak ha detto che per quanto i commandos israeliani sono pronti a bloccare la flotta «con ogni mezzo necessario», ci si attende «meno violenza» da parte degli attivisti rispetto allo scorso anno. Come se un anno fa fossero stati gli equipaggi della Freedom Flotilla ad aprire il fuoco o ad abbordare le navi militari israeliane.

Oltre al possibile impatto mediatico di una nuova azione di forza in acque internazionali, a poche settimane dall’iniziativa per la riconoscimento di uno stato palestinese all’Assemblea generale dell’Onu, il governo israeliano sembra molto preoccupato per le conclusioni dell’inchiesta parlamentare affidata a Micha Lindenstrauss sul blitz dello scorso anno. Secondo indiscrezioni pubblicate dalla stampa israeliana, Lindenstrauss avrebbe individuato una serie di responsabilità che risalgono nella catena di comando israeliana fino all’ex comandante di stato maggiore delle Israel Defence Forces, Gabi Ashkenazi – assente dalla sala di comando durante il raid – e fino al primo ministro Benyamin Netanyahu, a causa del suo scarso coinvolgimento nella pianificazione e nella procedura di autorizzazione del blitz costato la vita a nove attivisti turchi.

di Joseph Zarlingo

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