E’ stata una grande celebrazione d’amore per il lavoro, la festa per la Fiom a Bologna, in una Villa Angeletti colma,vibrante, bellissima.

Una celebrazione che arriva in un momento forse di vero risveglio, spinto dagli effetti sempre più pesanti della crisi. Lo dicono i dati, e lo dice la verità che si incontra negli affetti e nelle storie. Non  si può parlare di disoccupazione giovanile e precariato senza considerare la verità dei troppi amici costretti alla depressione ,senza la nostalgia per quelli andati via, senza sapere di come, nei vuoti di società, si logorano lentamente le amicizie, i progetti, gli amori, le culture giovanili.

Di questo parlano la musica, le parole, le sbornie, gli errori e le ferite di una generazione che sta lottando per affermarsi in un sistema di crisi.

Per questa generazione, ritorna, come un fastidioso mantra, il consiglio, più atroce che banale, della rassegnazione al lavoro, “qualsiasi e a qualunque costo. E’ la filosofia che sta dietro tante battutacce e massime di cinismo che si vogliono far passare per buon senso. E’ la morale comoda dei privilegiati. E’ la regola che impone la modernità  presunta del presente. E’ che “ciascuno cresce solo se siamo sognato” e questa generazione nessuno si è mai degnato di sognarla.

In questo periodo di cambiamento, si fa forte e lucida, l’idea che rinunciando ai diritti,alla dignità, alle aspirazioni, passeremo, forse, come un esperimento e niente più : come quei ragazzi che, mentre cambiavano le regole del gioco – l’università, il lavoro,la politica,la socialità – non hanno avuto tempo per capire fino infondo.

Credo che la mia generazione stia vivendo anni pesanti: di lavori umilianti, di sfruttamento, di frustrazioni. Anni in cui il lavoro ha perso significato,  portando molti alla chiusura, alla rassegnazione, o a uno sfrenato individualismo,a invecchiare dentro prima d’aver provato a essere giovani.

L’esplosione e l’importanza della rete fra i giovani, di cui ormai si prende atto,è forse solo la conseguenza di una fortissima domanda di riorganizzazione sociale  e tutt’altro che virtuale, che ha come vero motore il tema, necessario e trasversale, di andare oltre questa precarietà, di ritrovare significato nel fare. Il ritorno di questo pensare, in una fascia di ragazzi per anni assente, è il vero fiore del deserto di questi “cazzo di anni zero”. E’ una nuova coscienza di appartenenza.

Mi tornano in mente le lezioni di Dahrendorf e Beck,  due studiosi della modernità: “tanto più il lavoro ci sfugge, tanto più sentiamo il bisogno di difendere i valori e le strutture di una società su di esso fondata”.  Il sentimento nuovo è proprio questo. Riscoprire  il significato del lavoro, per poter credere  e amare ciò che si fa, per recuperare un senso del fare che sia espressione personale e sociale. E’ una dinamica inconscia: amare il lavoro, pretenderlo come scolpito nel marmo della Costituzione Italiana, per amare tutte le passioni della vita – la realizzazione del sé , la famiglia, la  collettività. Una vera, nuova, voglia del fare, per raggiungere e rinnovare le conquiste dei nostri padri.

Mi è sempre piaciuto leggere, nelle regole costituzionali, la descrizione di un sentiero, doveroso e necessario, che conduce al diritto umano più ovvio e insieme dimenticato: il diritto a ricercare la felicità. Attraverso la Costituzione, l’ Italia ha sognato il nostro futuro. Un futuro percorso nelle strade parallele del lavoro, dei diritti civili e della vera democrazia, che è stato radicalmente messo in discussione da chi ha visto in quel progetto una moda superata. Di quel bel sogno, ora, una generazione sembra volersi riappropriare per riempire i vuoti del presente, e trovare la sua strada.

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