Qualche estate fa, mentre pulivo tra i tavoli all’aperto di un ristorante dove facevo il cameriere, il proprietario mi disse “attento anche alle cicche nel giardino, che quella roba rimarrà lì anche cent’anni dopo la nostra morte.”

“Non solo le cicche di sigaretta”, pensai “ma anche le plastiche da imballaggio, le batterie per auto, i rifiuti industriali e via discorrendo.” Più ci ragionavo più sembrava che la situazione fosse senza via d’uscita. Ma forse una soluzione c’era (e c’è).

Rob Hopkins, 43enne inglese esperto di permacultura – cioè il metodo di progettazione agricola di insediamenti umani che imitano gli ecosistemi naturali –  ragionava su questi stessi problemi (e a molti altri) già da parecchio tempo quando nel 2005, sulla base di un esperimento condotto per circa due anni in un college irlandese, fondò il movimento delle Transition Towns.

Definire una Transition Town in poche righe è molto difficile e si rischierebbe di banalizzarne i contenuti teorici perciò, utilizzando le parole di Rob si potrebbe dire che “sono un movimento apartitico e nascono da un’esigenza di risposte concrete a molti problemi globali come il picco del petrolio o lo smaltimento dei rifiuti. Problemi che hanno un impatto gravissimo sia sul pianeta che sulla società. Essendo il nostro sistema attuale saturo ed inamovibile si è cercato di pensarne un altro che tenesse conto delle esperienze positive di tutti i movimenti ambientalisti del passato”.

Contrariamente a quelle che erano le intenzioni iniziali di Rob, prevalentemente ambientalistiche, il movimento delle Transition è diventato più culturale e sociale tanto da attecchire in molti paesi del mondo dall’America, al Giappone, al Brasile e, sorpresa sorpresa, perfino in Italia. Anzi, secondo quanto dice Rob il nostro paese è stato il primo nel continente ad abbracciare il movimento da lui creato, ed è stato anche il primo a registrare una collaborazione tra una giunta comunale – quella di Monteveglio (BO) – ed una Transition Town.

Cristiano Bottone, responsabile del nodo italiano delle Transition Towns residente a Monteveglio, parlando della dedizione con cui le persone si dedicano a questo movimento dice che “ogni individuo ha al contempo una massima libertà e una massima responsabilità nei confronti del sistema; cosa che non capita praticamente mai nella vita, e che ti mette di fronte a un modo di vivere differente.”

Vale la pena dire che seppure ogni Transition Town abbia le sue specificità, tutte cercano di rispettare dodici punti fondamentali comuni in tutto il mondo. Uno di questi dodici punti si riallaccia al mio dubbio iniziale sui rifiuti e lo risolve dicendo semplicemente di cercare di non creare scarti. “Se viviamo cercando di produrre meno scarti possibili” continua Cristiano “consumando tutto ciò che abbiamo, ecco che produciamo meno rifiuti.”

La cosa si può applicare anche a livello sociale sul problema della disoccupazione. “Il prossimo passo delle Transition Towns è infatti quello di creare occupazione e un business sostenibile” conclude Rob Hopkins. “Attualmente ci sono alcuni casi in Gran Bretagna come a Lewis, nel Sussex, dove si commercializza una birra prodotta con energia solare e grano forniti dalla Transition Town locale. Oppure a Londra, nella Transition Town di Brixton, al cui interno si usa una moneta ufficialmente riconosciuta che ha la stessa valenza della sterlina. Esempi come questi danno l’idea di cosa è possibile realizzare tramite le Transition Towns e di quanto l’economia locale ne possa trarre benefici sia a livello imprenditoriale che di lotta alla disoccupazione.”

Il sasso è stato gettato nello stagno e chiunque voglia può andare a curiosare nel “paese di transizione” più vicino a casa (in Italia ce ne sono 20).

di Francesco Mandolini, giornalista freelance e studente della London School of Journalism
francescomandolini.wordpress.com

Articolo Precedente

Le reti spadare: metastasi mediterranea

next
Articolo Successivo

Ue richiama l’Italia: “Non applicate direttive
per inquinamento mare e rottamazione auto”

next