Un cartello giallo lungo la strada avverte: pericolo, rallentare, centro assistenza immigrati. A settanta chilometri dalla città di Potenza, c’è Palazzo San Gervasio, cinquemila abitanti e una distesa infinita di campi di pomodori. E’ qui il Centro di Identificazione ed Espulsione più isolato d’Italia. Una struttura venuta su nel giro di poche settimane, su un terreno sequestrato anni fa ad un boss della Sacra Corona Unita. Lungo il perimetro dell’area, un muro di cemento alto tre metri impedisce di guardare all’interno. Da lontano riusciamo a scorgere una gabbia interna, con reti alte oltre cinque metri. Dietro le sbarre, alcuni giovani agitano le braccia per attirare la nostra attenzione. Una delegazione di parlamentari ha visitato l’altro ieri la struttura. Ai cronisti e agli operatori tv è stato impedito di riprendere all’interno l’incontro con gli immigrati. Alla fine del sopralluogo la deputata del Pd, Rosa Calipari, sintetizza ai mocrofoni de ilfattoquotidiano.it in una parola la situazione: “E ‘disumano”. La richiesta è una sola: “Chiudete quel centro prima che scoppi la rivolta”. Beppe Giulietti, deputato del gruppo Misto e portavoce di Articolo21, lo descrive come “un supercarcere al di fuori di ogni regola”.

Il governatore della regione Basilicata, Vito De Filippo, fa sapere che aprirà un’indagine per capire chi abbia dato l’ordine di costruire il centro e perché la Regione non sia stata avvisata. De Filippo, dopo i reclami di alcuni gruppi di cittadini, ha chiesto delucidazioni al Prefetto di Potenza che ha solo spiegato di “aver ricevuto ordine di allestire il campo senza dir niente a nessuno”.

Un campo blindatissimo da quello che abbiamo visto e sentito raccontare dai deputati. La cancellata d’ingresso, infatti, è presidiata giorno e notte da due volanti della polizia. I pochi che sono riusciti a oltrepassarla non esitano a definire “lager” quello che solo fino a due anni fa era un centro di accoglienza per i lavoratori stagionali della raccolta dei pomodori, organizzato da un gruppo di volontari.

Sono stati portati qui in novanta, meno di un mese fa. Adesso all’interno ce ne sono solo 54, tutti tunisini. Quando i cancelli si aprono per far entrare i mezzi della polizia, le urla e i fischi degli immigrati arrivano fino alla strada. La protesta va avanti da almeno una settimana. Gli immigrati lamentano le pessime condizioni in cui sono costretti a vivere. Poco cibo, scarse condizioni igieniche, nessuna informazione sulla loro situazione legale. Le autorità locali che hanno visitato il campo riferiscono di atti di autolesionismo, addirittura di due tentati suicidi. Quel che è certo è che almeno due immigrati, che riusciamo a riprendere con la telecamera, mostrano vistose ferite ai piedi e gambe ingessate. Si tratterebbe di lesioni provocate, secondo la ricostruzione dei responsabili del centro, durante alcuni tentativi di fuga. Per evitare nuovi casi del genere, agli immigrati sono state sequestrate le scarpe. Anche sotto la pioggia, sono costretti ad indossare solo ciabatte o infradito.

L’intera struttura è carente. Ci sono otto bagni in tutto, la metà di questi è quasi sempre inagibile. Un solo medico per l’intero centro. Nessuna possibilità di telefonare ai familiari in Tunisia. Con l’avvicinarsi dell’estate le alte temperature della zona già rendono insopportabile il calore all’interno delle tende. E la trasformazione del Cie da centro temporaneo a definitivo, potrebbe a breve far aumentare il numero delle persone detenute.

di Rosita Rosa

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