Giustamente Luca Telese segnala su Il Fatto e in questo blog la sconcertante/sconfortante intervista concessa da Massimo D’Alema venerdì scorso al proprio giornalista di fiducia, il vice direttore de La Repubblica Massimo Giannini; il cui titolo è tutto un programma: “Via Berlusconi e faremo la nostra parte per un nuovo governo di fine legislatura”.

Secondo il nostro opinionista, l’ennesima riprova del pernicioso “richiamo della foresta inciucista”.

Certamente nell’affannato gestore di una disastrosa Bicamerale di un tre lustri fa la coazione a ripetere raggiunge livelli ormai patologici. Rivelata non a caso da una mimica facciale in cui il disgusto cancella ogni pur vaga traccia di umana simpatia; quasi una sorta di estraniazione supponente dalla domanda democratica “basica” e le sue ingenue maldestraggini presunte (almeno per una mente tanto “sottile”; quale quella di chi salvò Silvio Berlusconi, considerato interlocutore facilmente “giocabile” da un professional astutissimo. Difatti…).

Ma forse tale esternazione ci dice qualcosa di più e di ancora più grave. Ad esempio che la struttura portante del Partito Democratico, in cui la furbizia tattica annichilisce sistematicamente l’intelligenza strategica (e la correlata generosità politica), recalcitra ad assumersi direttamente la responsabilità delle scelte incombenti: in primo luogo la manovra di riallineamento dei conti economici dello Stato. Molto meglio – dunque, almeno secondo i furbissimi – lasciare la patata bollente nelle mani dell’attuale compagine, magari con un cambio di cavallo al vertice a cui offrire i necessari supporti in termini di voto parlamentare.

Che questo comporti – di fatto – il traghettamento dal berlusconismo con Berlusconi a un berlusconismo senza Berlusconi neppure sfiora le meningi del Lider Maximo che arzigogola tale tesi e dei suoi deferenti supporter. Ossia l’idea che con i ballottaggi ha preso avvio una possibile fase di liberazione, con fuoriuscita da vent’anni deprimenti, a cui i prossimi referendum potrebbero imprimere un’ulteriore accelerazione.

Oppure – come è più plausibile – il succitato Lider Maximo ne è pienamente consapevole e si attiva per vanificarne gli effetti.

Allora la mossa di D’Alema va interpretata come l’offerta di una tregua per consentire alla maggioranza (ormai certificata minoranza presso la pubblica opinione) di prendere fiato, riassestarsi e riassorbire le spinte centrifughe. Ma una tregua che viene considerata anche a favore della propria parte.

Infatti troppe volte leggiamo le posizioni di D’Alema più per le apparenze che non per il loro significato intrinseco; a chi realmente si indirizzano. Perché il destinatario “vero” non siamo noi, frequentatori di questo blog e sostenitori di una drastica rottura con le prassi e i valori della sedicente Seconda Repubblica, sono le strutture interne del Partito Democratico di matrice piccista. Il popolo di cui D’Alema è riferimento e primo protettore in materia di status da nomenklatura e relativo reddito.

Un gruppo sociale che sul fronte dell’opposizione presidia il mantenimento di assetti che – tutto sommato – gli assicurano la sopravvivenza e (non di rado) il prestigio. Comunque una modesta quota di potere. Sicché – in cambio – garantisce al proprio sponsor il peso di cui continua a godere quale supremo manovratore interno (e i tempi a venire diranno se Pier Luigi Bersani si è scrollato di dosso questa pesante tutela).

Quindi risulta evidente che un effettivo cambiamento non può prescindere dalla necessità di trascinare, suo malgrado, anche questo pezzo di ceto politico su posizioni di discontinuità rispetto al passato.

Come per una felice combinazione astrale si è verificato in questi giorni a Napoli, Milano e Cagliari. Dove tutto ciò dipende soprattutto da tre ragioni:

  1. Candidature che hanno rifiutato ogni logica collusiva;
  2. L’individuazione di poche parole d’ordine comprensibili e mobilitanti (e non la vieta retorica dei “programmi” chilometrici e onnicomprensivi, opera di qualche team di comunicatori professionali);
  3. L’adozione di un nuovo lessico pubblico capace di evitare le trappole della neolingua mistificatoria vigente (“i moderati” che nessuno sa chi sono: quelli che amano le mezze misure? I “riformisti”, ossia quanti propugnano un metodo privo di connotazioni – il riformismo – che può tradursi in qualsivoglia scelta, come pure nel suo contrario. E così via).

Tirando a concludere: questi ultimi giorni ci hanno regalato una boccata di aria fresca che induce alla speranza. La prossima settimana riceveremo probabilmente ulteriori conforti. Ma tutte queste belle notizie restano sotto minaccia se non si affronta il problema del quadro generale, del governo. Che deve fornire una cornice favorevole perché le pianticelle spuntate in alcune città possano irrobustirsi e crescere. E, con loro, rifiorisca la vita civile nell’Italia intera.

Ciò significa affrontare il tema del “dopo”. Dunque trovare il coraggio per affrontare il tema difficilissimo di un New Deal nel Bel Paese che saldi il risanamento con la ripresa dell’accumulazione della ricchezza sociale. Tema che impone una premessa metodologica: l’espulsione immediata di ogni svicolamento nel tatticismo furbesco.

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