Quello che colpisce in quest’ultima fase della campagna elettorale a Milano è il modo nel quale Berlusconi si sta avviando alla sua personale conclusione. Non dico che il fenomeno Berlusconi sia finito – l’uomo ha ancora molteplici e pericolose frecce al suo arco e può contare sulla stupida litigiosità e la voglia di estremismo parolaio di alcuni esponenti dello schieramento avverso – esso si è però avviato in maniera irreversibile verso la sua parabola finale.

Avviene per tutte le esperienze politiche di esaurirsi e dunque perdere il potere, quando non si utilizzano, per mantenerlo comunque, strumenti di coercizione violenta. Non so se Berlusconi, tra i suoi tanti pensieri, faccia anche queste ipotesi. Sinceramente spero di no.

Milano ci mostra un Berlusconi prigioniero di una strategia, di un metodo, di un approccio che in passato ha funzionato, seppur con toni decisamente diversi. Oggi tale approccio, unito ad una violenza esasperata, viene proposto prescindendo dalla sua efficacia. I suoi esperti di marketing politico non possono non averlo avvertito della sua inefficacia. Viene allora spontaneo chiedersi: perché Berlusconi si ostina a riproporre, con una esasperazione caricaturale, la strategia del 1994, ovvero il pericolo dell’arrivo dei cosacchi con le falci e martello, unita al florilegio di promesse come ha fatto nell’ultima campagna elettorale contro Romano Prodi (la mossa dell’abolizione dell’Ici), promesse che oggi appaiono surreali se non palesemente assurde? Veramente Berlusconi è convinto che lo scontro al calor bianco, le menzogne, le accuse in pieno stile Forza Nuova, unite alla demagogia, facciano breccia nell’elettorato moderato milanese?

Gli esperti e i sondaggi, ma soprattutto le urne, gli hanno detto chiaramente di no. Può essere veramente convinto che la gente beva le promesse circolate in questi giorni? Promesse da capitan Fracassa che lo fanno somigliare a quei venditori di rimedi miracolosi del vecchio West, i quali finivano quasi sempre cacciati dalla città ricoperti di pece e piume? Evidentemente no. Pensa di poter ancora tenere la Lega legata al suo carro scassato con idee strampalate come lo spostamento dei ministeri a Milano? Sa che la strategia è perdente, ma si avvita su di essa, non riesce a liberarsene. Perché?

Quello che emerge in questa fase finale della sua parabola politica è una sorta di perdita di pudore. Berlusconi in realtà si mostra semplicemente per com’è. Non è un genio della politica, non lo è mai stato. E’ un furbo, con buoni mezzi a disposizione e molto denaro. La pochezza dei suoi competitori lo ha innalzato e lo ha reso un fenomeno quasi invincibile, ma in realtà è un mediocre.

Oggi Silvio Berlusconi dice finalmente quello che pensa, quello che ama dire. Finalmente è un uomo libero: birra ghiacciata, brachetta corta e… rutto libero!

Ha sofferto in tutti questi anni il dover incollare al suo volto una maschera, il dover tentare di apparire moderato, uomo delle istituzioni. Una pietosa finzione che ha subito, sperando che il suo progetto di approdo al Quirinale e di consolidamento a vita del potere potesse realizzarsi. Abiti stretti, come il doppio petto che lo strozza e lo fa apparire ancora più basso di quel che è. Eppure si ostina a indossarlo. La sua maschera, il suo costume teatrale, così come lo sono i suoi discorsi da uomo di Stato. Discorsi nei quali immancabilmente veniva inserita una stonatura, una frase, una provocazione, uno sgarbo gratuito. Gusto per la provocazione, strategia studiata? Dicevano i cantori di corte e i giornalisti prudenti. No, era semplicemente l’uomo che emergeva dalla finzione del personaggio.

Oggi Berlusconi non ha più motivo di fingere. Il ruolo che ha recitato per diciasette anni non lo ha salvato dal precipizio. Nonostante tutte le recite i sacrifici, le costrizioni, non è arrivato il premio, anzi si profila la catastrofe. Tutto inutile dunque, è stato tutto inutile. Si sente accerchiato e allora mostra il suo volto autentico. Il venditore di piazza, che insulta i concorrenti al mercato, che dice ai clienti che gli altri hanno merce avariata e bilance truccate, che cerca di vendere la sua paccottiglia, convinto di poter sempre fregare.

Torna finalmente ad essere se stesso nell’ora della presumibile sconfitta, sente che non ha nulla da perdere, che non deve più fingere; mentre il suo castello va in fiamme, mentre i suoi fidi prudentemente si allontanano egli urla al mondo, come Riccardo III a Bosworth Field, “il mio regno per un cavallo”. Cerca nell’urlo un’inesistente strumento per fermare la sua rovina. Continua a pensare di essere quello di diciassette anni fa. Non si vede e non vede il suo esercito in rotta, i suoi cavalieri che si pugnalano a vicenda e si preparano al “si salvi chi può”. Pensa ancora di poter intonare il Te Deum di vittoria e non sente il sorgere delle note del De Profundis.

Come nell’ultima scena di Scarface, continua a sparare su qualunque cosa si muova, e lo farà fino a quando non finiranno i colpi, e anche allora sparerà a vuoto, gli basterà sentire lo schioccare secco del metallo per pensare che ancora può vincere contro i suoi fantasmi.

Ha un che di tragico questa sua cecità, il suo non voler vedere il giorno della fine che, inesorabile, per tutti arriva.

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