John Paulson, è noto, può definirsi senza timore di smentita una speculatore di prima categoria. Anzi “lo” speculatore, nel senso pieno che il termine del genere può acquisire dopo quasi due decenni di esperienza e rendite miliardarie nel settore degli hedge fund. Osserva, valuta, scommette. E non perde (quasi) mai. Merito di una capacità obiettivamente notevole nonché, particolare non da poco, di un’immensa disponibilità di capitali frutto del proprio patrimonio e di una smisurata leva finanziaria. Per questo e non solo, nel corso degli ultimi anni ha potuto arricchirsi come nessun altro puntando laddove pochi avevano lanciato lo sguardo con la convinzione di poter ottenere guadagni da sogno. Uno schema vincente che garantisce la possibilità di affossare realtà apparentemente solidissime traendo ulteriori profitti da situazioni apparentemente disperate. Una storia che si ripete anche oggi a fronte di una consistente prospettiva di guadagno su ciò che a prima vista assomiglia a pieno titolo a un ammasso senza valore di spazzatura finanziaria: le obbligazioni della defunta Lehman Brothers.

Il calcolo lo ha reso noto in esclusiva il Wall Street Journal analizzando ed elaborando i dati contenuti nei documenti ufficiali dei tribunali fallimentari statunitensi. In prima fila nell’elenco dei creditori, il fondo di Paulson potrebbe guadagnare da ciò che resta della banca d’investimento Usa una cifra compresa tra i 350 e i 726 milioni di dollari. Un profitto micidiale che contrasta con le clamorose perdite patite dai fondi di investimento e dai risparmiatori americani che avevano scommesso su Lehman quando l’azzardo appariva minimo e il rapporto rischio/opportunità particolarmente conveniente. Ovvero, esattamente nel momento sbagliato.

Un passo indietro. Lehman Brothers è fallita ufficialmente il 15 settembre del 2008 gettando nella disperazione i suoi creditori. Migliaia e migliaia di risparmiatori che si erano esposti direttamente o indirettamente (attraverso i fondi pensione, ad esempio) su quella che le principali agenzie di rating avevano classificato come una banca di innata solidità. Quello stesso giorno, segnala il Wsj, la Paulson & Co., principale veicolo di investimento del magnate non faticò più di tanto a rastrellare circa un quarto di miliardo di dollari di obbligazioni Lehman pagandole a poco più di un terzo del loro valore nominale. Ovvero meno della metà del prezzo di mercato dei giorni precedenti. Una corsa all’acquisto che si sarebbe conclusa molto tempo dopo con il seguente punteggio: totale transazioni: 1.800; controvalore nominale, 7 miliardi di dollari; prezzo medio dei bond all’acquisto: 13 centesimi per ogni dollaro.

Questo dunque il risultato all’intervallo, ma adesso c’è tutto il secondo tempo da giocare. E ovviamente si cambia campo: non più la giungla del mercato finanziario ma le più solenni aule di tribunale delle corti fallimentari. La banca è in liquidazione, il che significa che il ricavato della cessione degli assets sarà distribuito ai creditori. In che misura? Le decisioni non sono ancora state prese ma è noto che la forbice si aggirerà tra i 16 centesimi per dollaro del piano Goldman Sachs e i 25 proposti da Paulson. Nel primo caso, afferma il Wsj sulla base di un calcolo che tiene conto delle numerose operazioni di compravendita già effettuate, il finanziere, che ha già ceduto parte dei bond, si porterà a casa, a conti fatti, 726 milioni. Nel secondo caso ne intascherà 350. Quanto ai fondi che gestiscono il denaro dei risparmiatori e che hanno acquistato le obbligazioni prima del collasso, c’è poco di cui rallegrarsi. Nella migliore delle ipotesi, il californiano Calpers, principale fondo pensione pubblico Usa, chiuderà con una perdita di 68 milioni.

Alla luce del programma attuale si capisce perfettamente cosa avesse in mente Paulson quando, alla fine del 2008, si rivolse ai suoi investitori chiarendo i suoi imminenti piani di investimento nel settore dei distressed debt funds, i famigerati “spazzini” dei titoli tossici che la crisi aveva improvvisamente rinvigorito. Lo schema è quello dell’assalto ai creditori disperati, una strategia che è valsa agli operatori il poco invidiabile epiteto di “avvoltoi” (vulture funds) e che, negli anni, è stata efficacemente collaudata sui debiti esteri del Terzo Mondo. Nel 2004, la compagnia FG Hemisphere, fondata dagli ex consulenti di Morgan Stanley Peter Grossman e Keith Fogerty, acquisì i diritti su un credito da 11,7 milioni di dollari vantato da una società di Sarajevo, la EnergoInvest, nei confronti della Repubblica Democratica del Congo. A colpi di sentenze, interessi maturati e penali caricate, il credito è cresciuto fino quasi a decuplicarsi con una riscossione garantita dal congelamento degli assets che il governo di Kinshasa detiene all’estero. Una storia come tante nella narrativa “alimentare” degli avvoltoi finanziari i cui rendimenti finali, ha segnalato l’African Development Bank, hanno raggiunto in passato anche il 2000%.

Paulson, come detto, non può sognare rendimenti simili su Lehman. Ma nel suo caso la beffa è decisamente più sottile. Già, perché al collasso del mercato immobiliare e al conseguente tracollo dell’istituto ha contribuito anche lui. Merito, si fa per dire, delle scommesse al ribasso sul fronte dei mutui (che secondo il Wsj avrebbero fruttato 4 miliardi di dollari) ma anche sulla stessa banca. Alla vigilia della crisi, si narra, Paulson, acquistò 22 milioni di dollari in Cds (i famigerati derivati che assicurano contro il rischio fallimento del debitore) di Lehman Brothers. La scommessa, sostiene l’Economist, gli avrebbe fruttato circa 1 miliardo.

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