“La mia vita è il mio messaggio”, ha detto Sathya Sai Baba, l’ultimo dei grandi guru indiani, filantropo ed educatore, che il 24 aprile si è spento a soli 85 anni. Dopo un mese di degenza nell’ospedale di Puttaparthi, in Andhra Pradesh, nonostante avesse detto ai suoi fedeli che sarebbe vissuto fino ai 93 in ottima salute. Lasciando milioni di fedeli sparsi in tutto il mondo, che lo credevano immortale, nella costernazione e nello sgomento – come può morire un dio? – e uno dei più grandi imperi economici dell’India, lo Sri Sathya Sai Central Trust, valutato circa 12 miliardi di euro. Dove già nel 1993 il governo aveva cercato di vedere chiaro (dato che il budget del Trust non è trasparente) tanto da aver aperto un’indagine per sapere come avesse fatto Sai Baba a mettere su un impero che al tempo era valutato 2 miliardi di dollari. Il sospetto era che il denaro non provenisse solo da donazioni – da parte di adepti, ma anche da parte di politici corrotti e da noti personaggi della malavita – ma fosse anche denaro riciclato.

Bhagwan, cioè il Beato, come lo chiamano i suoi seguaci, si era autoproclamato un avatar, la reincarnazione di Sai Baba di Shirdi, che nel secolo scorso ha predicato una disciplina intrisa di elementi induisti e sufi, la tradizione più genuinamente mistica dell’Islam. Alcuni credono che sia Krishna, il dio bambino circondato da pastorelle innamorate. Altri che sia Gesù, tanto che un gruppo di induisti radicali ha stilato una lista di somiglianze fra i due: per esempio, sono nati entrambi da una vergine e fanno miracoli.

Ma non è stata la dottrina di Sai Baba, fondata su principi universali comuni a molte grandi religioni – l’amore, il servizio verso il prossimo – ad attrarre i milioni di seguaci, dai più umili alle stelle di Hollywood come George Segal, dai campioni di cricket a personaggi come Isaac Burton Tigrett, fondatore dell’Hard Rock Cafè. La fama del Beato è fondata sul tocco guaritore, che attraeva file di chilometri di malati da tutta l’Asia meridionale, e sulle materializzazioni. Faceva comparire vibhuti, la cenere sacra con cui gli induisti si segnano la fronte, e lingam, il fallo sacro. E anche qualcosa di molto meno spirituale come oggetti d’oro, anelli con pietre preziose, orologi Rolex.

Nel corso degli anni non sono mancate le polemiche attorno al movimento e al suo guru, che è stato accusato di fare trucchi da prestigiatore e di abusare sessualmente di giovani fedeli, tanto che nel 1993 alcuni dei suoi più stretti collaboratori hanno cercato di ucciderlo. Nonostante tutto, la sua fama e la sua ricchezza sono andate crescendo e Sai Baba nel 1973 ha fondato un impero a metà fra lo spirituale e l’economico, il Sathya Sai Central Trust, situato a Prasanthi Nilayam, l’ashram principale di Puttaparthi. Comprende centinaia di ettari di terra, gioielli e denaro valutato in milioni di euro e un ospedale sulla collina retrostante, nonché diversi templi, due musei, due ristoranti indiani e uno occidentale e una filiale della State Bank of India, la banca nazionale indiana.

Bhagwan non si è fermato qui. Ha fondato un istituto di cultura superiore, scuole e college di cultura generale e di musica, la Scuola internazionale per i valori umani a New Delhi, una di medicina a Prasanthigram, in Andhra Pradesh e a Whitefield, Bangalore, che funzionano anche come ospedali, una casa editrice e alcune cliniche oculistiche. Tutti servizi gratuiti per i poveri, ma dove circolano fiumi di soldi.

Sin dai giorni prima che Sai Baba morisse si è aperta la lotta per chi dirigerà il Trust, tanto che per trovare il futuro leader si sono scomodati anche personaggi di alto profilo. La notte di domenica scorsa Bagwan è apparso all’avvocato Gopal Subramanian, vice procuratore generale dell’India, e gli ha detto di cercare nella sua camera da letto, nel complesso residenziale di Yajur Mandir. “C’è una cassetta d’argento. Aprila e troverai istruzioni su come dirigere il Sai Central Trust”. Queste le rivelazioni di Sai Baba a Subramanian, che lunedì mattina le ha riportate al suo ufficio. Immediatamente è stata chiamata la polizia per aprire il complesso, sigillato da quando si era sparsa la voce che poche ore prima della dichiarazione ufficiale di morte alcuni veicoli carichi di oro e di beni avevano lasciato il complesso. Ma quando la squadra guidata dal vice ispettore generale Charu Sinha è entrata nella camera spartana del maestro – un letto, una sedia e una scatola di medicine – non c’era nessuna cassetta. Subramanian non sarà il futuro capo del Trust.

I servizi segreti hanno scritto una relazione lasciando intendere che Satyajit, l’assistente di Sai Baba, e il suo medico personale Dr. Aiyar hanno ricevuto minacce di morte, tanto che il governo di Hyderabad, la capitale dell’Andhra Pradesh, ha suggerito ai due di non apparire in pubblico per qualche tempo. Il Dr. Aiyar è aspramente criticato dai seguaci per non aver tenuto le cartelle mediche di Sai Baba. Satyajit invece è il candidato favorito dai membri del Sathya Sai Central Trust, che lo vedono adatto a dirigerlo.

Lotte per i soldi e il potere, quindi. Minacce. Ecco anche quello che ha lasciato Sai Baba, oltre ai milioni di fedeli in tutto il mondo e ai 3 chilometri di fila di seguaci venuti a Puttaparthi per vederlo un’ultima volta. Chi sa cosa direbbe, lui che ha dichiarato: “Io sono l’incarnazione dell’amore divino. Non c’è esistenza senza amore; il più basso ama se stesso, come minimo. E se stesso è Dio. Quindi non esistono atei” e “in ognuno di voi, sappiatelo, c’è Dio”.

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