Oggi ho scritto l’articolo più difficile della mia vita. Non pensate alle bombe che devono affrontare i nostri colleghi più coraggiosi. E nemmeno alle minacce della mafia. Niente di tutto questo, neppure pressioni di politici invadenti (quelli al Fatto non si fanno sentire).

Ma allora? Dopo giorni in giro per l’Italia si preparava una giornata di relativa tranquillità. Almeno questo pensavo: un articolo sull’Italia che va, finalmente un po’ di ottimismo. E potevo scrivere da casa: “Sono nel mio rifugio, con i miei figli. Meglio di così…”, mi dicevo. Un tragico errore.

Ore 14, raccolto il materiale e mi preparo per scrivere. È un piccolo rito: un caffè, una canzone dei Radiohead a manetta per darmi lo slancio. Poi mi chiudo a chiave nello studio, una specie di loculo di un metro e mezzo per due (giuro). Qualcosa tipo la cabina di un aereo quando il pilota prima dell’atterraggio in gergo aeronautico dice: “Cabina sterile”, insomma. Silenzio totale, nessuno deve entrare.

E comincio a pigiare sui tasti. L’incipit, come mi raccomandava ai primi articoli il mio collega Roberto Di Sante del Messaggero, è decisivo. Deve essere breve, incisivo. Una riga al massimo, sennò il lettore scappa.

Provo, riprovo. Trovo la formula giusta. Almeno mi pare. Vedo la pagina bianca che prende a riempirsi. Il cuore mi batte rapido – mi succede sempre – per l’impazienza di dare forma ai pensieri che arrivano veloci.

Ma ecco l’imprevisto. Il primo. Mia moglie bussa alla porta: “Potresti tenere per cinque minuti Mario che esco un minuto”. Come dire di no? Mario, cinque mesi, mi sgrana gli occhioni azzurri, sorride. E poi che cosa sono cinque minuti? Non ci sono mai, ogni tanto devo aiutare mia moglie, i padri devono fare la loro parte.

Tengo Mario con il braccio destro, mentre con la sinistra batto veloce sui tasti. Ma appena mia moglie si chiude la porta alle spalle ecco che Marietto si trasforma: sette chili di perfidia allo stato puro. Prende a divincolarsi, a urlare. Chi l’avrebbe detto, due polmoni grandi come un’albicocca che producono un sibilo da cento decibel. Peggio della sirena di un transatlantico.

I minuti passano. E anche le ore. Mia moglie è bloccata nel traffico e io mi guardo intorno come se avessi in mano una bomba a orologeria. Azzardo una ninna nanna, Mario però urla che pare gli salti una tonsilla (e non ha tutti i torti, a scuola la professoressa di musica mi implorava di non cantare per non rovinare la recita di fine anno). Provo a cullarlo, maldestro come sono gli faccio prendere una zuccata nell’armadio. Il ciuccio? “No, deforma il palato”, ordina mia moglie, talebana dell’allattamento. La situazione è completamente fuori controllo. Ma il peggio deve ancora venire. Chiama Caterina, adorabile collega, dai modi suadenti, ma fermi: “Sono le cinque, è pronto l’articolo?”. Mento: “E’ pronto tra dieci minuti. Sto finendo di scrivere”. Porcoggiuda sono alla quinta riga.

Calma Ferruccio, calma. Provo a fare come i delfini: con metà cervello cullo Mario, con l’altra scrivo. Sì, ce la posso fare. Sono in una stanza di due metri cubi, ma è come se fossi in un prato di montagna, non sento più rumori.

Ma proprio adesso i miei adorati pargoli mostrano il loro lato più diabolico, roba da far impallidire le Bestie di Satana. Perché i bambini sono così, hanno un fiuto pazzesco, appena annusano l’emergenza ci si cacciano a pesce. Adriano, 3 anni, comincia a picchiare contro la porta, urla, urla sempre più forte: “Papà, devo fare la cacca”. Allarme rosso, ma io tiro dritto. Qui, però, è come Fukushima, si è scatenata la reazione a catena, siamo alla fusione del nucleo. Adriano ha innescato Giovanni, 5 anni: “Papà, avevi promesso che giocavi con me alle macchinine”. Tu quoque Giovanni…

Provo a convincerli, li imploro, ma loro, perfidissimi, sembra che ci godano a vedermi annaspare. Alla fine passo alle maniere forti, ma non sono proprio il tipo: do un pugno nel muro, ma la parete è di cartongesso, mi cade pure un quadro in testa. Adesso piangono tutti, e io mi sento un perfetto deficiente guardando riflessa nello specchio la mia faccia paonazza, i lineamenti deformati.

Ma il disastro deve ancora arrivare. Il telefonino suona. Guardo il numero che compare sullo schermo: “Padellaro”. Oddio, il direttore. È finita, penso. Mi prende il panico: sarò licenziato, i miei figli finiranno a chiedere l’elemosina al semaforo.

Non resta che una via d’uscita: fuggire. Esco di corsa dal mio bunker, mollo Mario nella culla, semino Adriano e Giovanni correndo giù dalle scale e mi rifugio in bagno. Il mio ufficio di emergenza, come Fonzie di Happy Days, qui le urla non arrivano: “Ciao direttore, tutto a posto. Tra poco ho finito”.

Grazie a Dio non usiamo ancora il videotelefono. Ecco, adesso posso ricalarmi nei panni del padre-reporter. Mario in braccio, Adriano e Giovanni che urlando mi fanno correre le auto tra le gambe. Io resisto. Scrivo e alla fine l’agognato ultimo gesto: “Invio”. L’articolo è consegnato. Prendo il telefono e rassicuro Caterina. Poi crollo.

Ore 20, mia moglie riemerge dal traffico: “Ma che cos’hai combinato alla faccia?”. Mi guardo allo specchio: ho un orecchio coperto di una sostanza non identificata di colore marrone. Cioccolata, per fortuna. Giovanni e Adriano avevano messo il mio cellulare in mezzo alle uova di Pasqua. Poteva andare peggio: il figlio di un mio collega trovando il telefonino del padre incustodito ha chiamato il ministro Romani… (in fondo, però, un po’ di candore ai politici non guasterebbe).

Infine il colpo di grazia. Mia moglie si affaccia alla porta: “Bè, visto che hai passato una giornata tranquilla puoi mettere a letto i bambini”. Vorrei chiamare il telefono azzurro per cronisti.

Ma penso a voi, ai lettori, che mentre leggete i nostri articoli magari vi immaginate reporter senza macchia e senza paura, sacerdoti della notizia…

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