Non si è mai capito molto bene cosa si ricavi culturalmente ed architettonicamente dalle grandi opere sorte, per parafrasare il Molleggiato, là dove c’era l’erba. L’Auditorium di Renzo Piano, presentato in pompa magna come lo sbarco su Marte giusto l’altro giorno a Bologna, dovrebbe sorgere, appunto, in uno spazio della Manifattura delle Arti dove si erano riusciti a salvare qualche ciuffo d’erba e qualche tronco d’albero. Già in termini di politica ambientale il faraonico progetto rischia di essere parecchio impattante, proprio all’interno di un’area dove la ristrutturazione di vecchi edifici e la loro rivalorizzazione funzionale (la Cineteca all’Ex Macello, il Mambo all’ex Forno del Pane, per non parlare del torresotto del Cassero) aveva comunque sortito un effetto di rivitalizzazione del territorio senza sconvolgimenti esteriori. Proprio perché Bologna non è Berlino, sventrata da bombe americane e dalla guerra fredda, tutta intenta a ricostruirsi un’identità urbana su parecchie macerie e spazi vuoti, un discorso di logica architettonica andrebbe fatto. Ed è qui che si complica la questione Auditorium.

Ma si può in una città di qualsiasi dimensione, altezza e latitudine proporre plastiche piantine senza aver prima concordato senso ed urgenza del progetto con le istituzioni? Assessori, consiglieri e politici locali, l’altro giorno sembravano come sorpresi da cotanta imponente progettualità privata esibita come se tutto fosse già scritto. Ciò equivale a dire che non esistono più politiche d’indirizzo comunali, provinciali e regionali di regolamentazione del territorio. Insomma, tizio o caio chiamano stampa e melomani e dicono: in quest’area si costruisce l’Auditorium, dovremmo farcela entro il 2013-14, grazie a tutti e arrivederci. Ma tutto ciò era previsto in qualche piano regolatore? I cittadini amanti della cultura, anzi del rilancio della cultura a Bologna, hanno votato alle ultime elezioni programmi che prevedevano l’uso dell’area Manifattura delle Arti per la costruzione dell’Auditorium di Renzo Piano? Oppure una volta imposta la scelta del privato il pubblico si adatta, china il capo e infine si adegua, altrimenti il privato non gli fornisce supporti finanziari in altri settori strategici?

Quarant’anni fa Pasolini faceva una distinzione acuta tra sviluppo e progresso, tra produzione di beni superflui e di beni necessari, che in casi del genere torna attualissima. E’ più che lecito chiedersi se tra  il Teatro Comunale che fatica a proseguire, il Duse che chiude, le decine di teatri bolognesi costretti a vivacchiare senza l’acustica di Piano ma con idee, competenza e curiosità artistica da vendere, sia necessario piazzare in città un Auditorium da ben 1800 spettatori (La Scala a Milano ne tiene 2013). La sindrome Civis-metropolitana-stazione Bofill sembra continuare: l’euforia contagiosa delle grandi opere al posto di una seria ricognizione dello stato delle cose e del relativo riutilizzo, la logica dell’accumulo nel costruire edifici e centri commerciali per poi lasciarli vuoti o farli progressivamente chiudere, il plastico inventato da Angelo Canevari per Rosi in apertura de Le mani sulla città.

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