La frontiera tra Egitto e Libia è su una collina che sovrasta la cittadina Saloom. Alle sei del mattino qui gli unici svegli sono i cinque militari che, avvolti nelle coperte, bloccano la strada e controllano le poche auto dirette al confine. Nel piazzale davanti all’ufficio immigrazione sono accampati centinaia di persone, coperti da teli di nylon dell’Unchr, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati. Donne e bambini aspettano dentro, dove fa un po’ più caldo. Sono fuggiti dalle loro case con l’inizio della guerra e l’unico rifugio sicuro che hanno trovato finora è questo. La Polizia di frontiera egiziana ha un tavolo di legno. Gli agenti bevono tè e discutono, le procedure burocratiche sono liquidate rapidamente. Un modulo da compilare, qualche dinaro e auguri di buona fortuna. Poi, a piedi, si va verso quella che era la frontiera libica.

Bisogna percorrere 500 metri prima di vedere qualcuno. Sul muro che corre lungo la strada c’è scritto in arabo: “Benvenuti nella nuova Libia”. Sporcizia e la ferraglia ammassata non confermano il senso di accoglienza. I primi ribelli sul cammino sono un gruppo di ragazzi che cercano di scaldarsi attorno a copertoni di automobili dati alle fiamme. Non esiste un visto da richiedere e ottenere. Non c’è un militare, un dirigente pubblico, un’autorità. C’è Mohamed, 23 anni, fino a un mese fa era disoccupato. Adesso, nella Libia che spera di costruire, registra le poche persone che entrano su un foglio di quaderno strappato. Nome, Cognome e numero di passaporto. E ammette di non sapere a cosa serva quella trascrizione volante. Ma gli hanno detto di fare così. E lui esegue. Su una pila di fogli che giacciono su quella che dovrebbe essere la scrivania, ma in realtà è una tavola di legno appoggiata su due sedie, ci sono nomi e cognomi dei libici che in questi giorni hanno lasciato il Paese. Mette la maschera da “militare cattivo” e ci consegna i passaporti indicando la strada per trovare un’auto diretta a Bengasi. Poi, con aria da comandante, alza la sbarra di ferro e ci fa segno di accelerare il passo.

Più avanti, di quello che doveva essere una sorta di market, non è rimasto niente. Solo alcuni divani in pelle dove stanno seduti uomini con il kalashnikov tra le gambe. Ibrahim, con la sua Hiunday ci garantisce un passaggio, dietro lauto compenso, fino a Bengasi. Sei ore su una lingua d’asfalto in mezzo al deserto. Portare giornalisti avanti e indietro è diventato un business. Nei primi giorni di proteste trovare un pick-up, salire sul cassone e muoversi verso la capitale dei ribelli era un gioco da ragazzi. Oggi, percorrere i 500 chilometri ,costa 400 dollari. “Ci devo guadagnare io – racconta durante il viaggio – e devo pagare chi mi procura il cliente. Cosa vuoi?” In tutti i Paesi di guerra c’è chi fa affari. Si offre anche di procurare una sim card libica. Senza credito e usata da un amico fidato, alla modica cifra di 200 dollari.

Ad eccezione di Toubruk, il resto del viaggio è una corsa nel nulla. Ma più l’auto si avvicina a Bengasi, più la situazione cambia. A un centinaio di chilometri dalla seconda città più grande della Libia, completamente in mano ai ribelli, i posti di blocco cominciano a farsi numerosi. Vengono segnalati da massi in mezzo alla strada che costringono a rallentare e bandiere libiche sventolanti. Due, tre persone a ogni road block, armati di AK47 e, in qualche caso, armi pesanti. Qualcuno trova anche il tempo di rilassarsi fumando narghilè in mezzo alla strada.

Bengasi comincia ad avvicinarsi. La vita, con la luce del giorno, sembra normale. Non c’è il traffico caotico, ma il mercato lungo la strada che porta fuori città ha riaperto e la gente fa spesa. L’Hotel Uzo si riconosce subito. È qui che alloggia la maggior parte della stampa estera e sui balconi del grande palazzone spuntano le antenne satellitari necessarie per la trasmissione dei servizi. La linea telefonica funziona soltanto all’interno della Libia e l’unico modo per comunicare con l’esterno è il satellite. I giovani “rivoluzionari” hanno allestito all’entrata un tavolo con le informazioni per i giornalisti. Vogliono i media dalla loro parte e fanno di tutto per facilitare il lavoro della stampa straniera. Davanti al tribunale hanno anche allestito un centro stampa, dove si ritira l’accredito per la prima linea.

Alle 18, con il buio la città si cancella, diventa fantasma. Ogni tanto si sentono colpi di mitra. I ribelli, almeno quelli armati, sparano in aria. Non si sa cosa festeggino anche se Bengasi oggi non sembra una città in guerra. La prima linea è a un’ora e mezzo di macchina da qui. E non si sposta da tempo, i ribelli avanzano e indietreggiano. Mentre in città tutto sembra immobile, sospeso.

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