Il Tribunale di Roma ha deciso di affidare i due figli di una coppia in via di separazione al padre e non alla madre. Voi direte: che male c’è? Nessuno, naturalmente, capita. E la notizia di per sé non è una notizia. Quello che mi ha colpito è la motivazione, per lo meno quella che è uscita sulle agenzie di stampa. Il giudice ha deciso così perché la madre dei due bambini è una giornalista. Da mamma-giornalista-separata mi appare francamente una discriminazione. Già è molto complicato, per tutte le donne, conciliare il lavoro con la maternità.

Io vedo mia figlia davvero poco: la accompagno a scuola la mattina, poi vado al giornale e torno a casa la sera tardi, quando lei già dorme. Naturalmente sfrutto tutti i minuti che ho a disposizione, nei giorni liberi e la domenica (e per fortuna il Fatto ancora non esce il lunedì), per stare con lei, per garantirle quel quality time necessario alla sua crescita serena. Inutile parlare dei sensi di colpa: nei primi sei mesi di vita del giornale, mi sono sentita una madre snaturata, indegna, a tratti cattiva. Sentivo addosso gli occhi del mondo, le domande silenziose di tutti quelli che pensavano: come fai a preferire la carriera a una figlia? Ho passato davvero dei brutti momenti. Poi, però, ho capito che amare un figlio non significa rinunciare a se stessi. Se io avessi detto addio al giornalismo, o solo al Fatto, per ricominciare a essere mamma a tempo pieno, avrei fatto un danno a me e alla mia bambina. Certo, avrei avuto molto più tempo da dedicarle, ma quel tempo sarebbe sempre stato tormentato e infelice. Perché la realizzazione di una donna è fondamentale per uno sviluppo equilibrato dei figli.

Il problema non siamo noi mamme che cerchiamo anche di continuare a essere donne. Il problema è la società italiana, che non garantisce a una donna-mamma il necessario sostegno, le indispensabili politiche familiari. Non ci sono posti negli asili pubblici, non ci sono asili che chiudano oltre le 17 (quanto meno al centro sud), con i tagli della Gelmini non esiste più il tempo pieno a scuola, non c’è la giusta flessibilità nel mondo del lavoro (se chiedi un part time sei tagliata fuori dalla carriera). In Italia continuiamo a essere penalizzate: o fai la donna o fai la mamma.

La sentenza del Tribunale di Roma (frutto anche dell’assurda legge sull’affido condiviso che, nonostante i trionfalismi della politica, ha reso molto più complicata una gestione serena dei figli) non fa che rimarcare questa separazione, anzi, questa discriminazione. Non invidio quella collega: ha davanti a sé anni di battaglie sacrosante per vedersi restituiti i suoi figli. Ma fino a quando ognuna di noi combatterà da sola, non sposteremo di una virgola l’immenso divario culturale che ci separa dal resto dell’Europa.

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