Musica

Cercasi batterista, su Twitter

Internet continua a cambiare la musica. Ora le band si formano sui social network e suonano senza incontrarsi

di Carla Rumor

Era il 20 settembre 1976 quando Larry Mullen Junior mise un annuncio sulla bacheca della sua scuola a Dublino in cerca di musicisti per formare un gruppo. Risposero tre ragazzi, poco dopo nacque la band più famosa del mondo, gli U2.

Altri  momenti. Oggi, nell’era di Internet e dei social network, i gruppi musicali si formano direttamente sul web e spesso e volentieri suonano assieme senza mai incontrarsi di persona in sala prove come si faceva una volta. E’ il caso di Twitterband, la cover band che si è formata sull’omonimo social network.

Il loro primo brano è una cover degli Smiths, “Please, please, please”. Un esperimento che è piaciuto agli stessi autori del pezzo. Tant’è che Johnny Marr, chitarrista dello storico complesso ha affermato: “bel lavoro! Sono commosso”.

La stessa cosa vale per la cover di Maggie May di Rod Stewart ,  un progetto che finanzia la ricerca contro il cancro che ha già raccolto oltre 2000 sterline in pochi giorni.

Ecco che non solo hai creato una band grazie a un social network ma ti sei già fatto un bel po’ di promozione gratuita.

Altro esempio, è uscito ieri il primo singolo fatto in crowdworking, un metodo sulla falsa riga dei racconti condivisi. Ad avere questa idea è stata la cantante britannica Imogen Heap, vincitrice di un Grammy, che per il suo nuovo progetto ha coinvolto tutta la rete. Per due settimane i suoi fan su Twitter, circa un milione e mezzo di persone, hanno potuto aiutarla nella creazione del primo brano del nuovo album. “Amo l’idea che il seme delle mie canzoni nasca dai miei fan”, ha commentato la Heap.

E anche in Italia le idee non mancano, la scorsa settimana è uscito il primo album prodotto dal cosiddetto azionariato popolare. La band genovese degli Ex-Otago, ha messo in pratica una formula mai usata prima in Italia per produrre un disco, una sorta di autoproduzione condivisa con fan e amici: grazie alle loro offerte è nato il disco, in cambio hanno avuto l’album in anteprima, brani in download gratis, riduzioni ai concerti, il proprio nome pubblicato sulla copertina del disco.

Insomma nel sottobosco musicale le iniziative crescono come funghi. Ma ancora non è chiaro che strada stia prendendo l’industria della musica. Quello che è certo è che secondo i dati della Recording Industry Association of America, nel 1999 l’industria fatturava 15 miliardi di dollari e ora ne fattura la metà. La musica digitale ha messo in crisi il settore ma ha anche creato nuove opportunità e nuovi scenari.

Un punto di svolta lo diedero i Radiohead nel 2007 quando sfidarono con successo l’establishment, scavalcando lo scomodo intermediario della casa discografica e dando la possibilità ai fan di scaricare il loro ultimo disco da internet con una offerta libera. Non a caso, al tempo l’iniziativa fu criticata dai rappresentanti dell’industria musicale che la giudicarono ”pericolosa” per i diritti d’autore degli artisti. Poco dopo i Nine Inch Nails seguirono l’esempio regalando il loro album. Oggi un fenomeno come Justin Bieber, un ragazzino canadese di 17 anni che è nato su YouTube e il cui video ora ha raggiunto 500 milioni di visualizzazioni, basta a far capire che tutto è cambiato.

Bizzarro pensare che la causa della crisi sia ora l’unica via di salvezza, no? Lo abbiamo chiesto a Enrico Molteni, bassista del gruppo Tre allegri ragazzi morti e anima della casa discografica La Tempesta che raccoglie artisti come Le luci della centrale elettrica o il Teatro degli Orrori.

“Sì è bizzarro ma è anche interessante. Prima c’era un mercato unico, ora tutto è possibile, per cui molti artisti si inventano qualsiasi cosa pur di far circolare la propria musica. In un certo senso è anche stimolante: non ci sono più scuse, se un gruppo ha valore la gente se ne accorgerà. E poi è vero che il mercato è in crisi ma in un certo senso si sta anche rinvigorendo, si ascoltano cose nuove, non siamo costretti ad ascoltare solo ciò che ci imponevano le case discografiche”.

Chiediamo, anche voi siete una casa discografica però, come mai non risentite della crisi? «Il motivo è che noi siamo una casa discografica destrutturata, siamo un collettivo di artisti, con una struttura leggera senza costi di gestione. Più che altro siamo un’idea tenuta insieme dagli artisti stessi.

“Dove stiamo andando non è ancora chiaro. Il fatto che la musica sia libera è comunque una cosa bella, ma credo che se ci fosse un tentativo di bloccare tutto non si ricomincerebbe a vendere dischi perché ormai la gente è abituata”

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