Martha Nussbaumdi Claudio Giunta*

Non per profitto, il libro di Martha Nussbaum sulla crisi dell’istruzione umanistica inizia con due citazioni, una da Tagore e l’altra da Dewey, che lamentano la crisi dell’istruzione umanistica. Visto che Tagore scrive nel 1917 e Dewey nel 1915, leggendo la Nussbaum è difficile sbarazzarsi dell’impressione che sia sempre lo stesso piagnisteo.

In parte è così, ma in parte le cose sono cambiate. Nello spazio di un secolo, la tecnologia ha rivoluzionato il modo in cui viviamo; e la vita è diventata così complessa da sollecitare sempre di più le competenze non di intellettuali capaci di interpretare il mondo (filosofi, storici) ma di tecnici capaci di farlo funzionare (economisti, giuristi, medici).

Conseguenza: una formazione umanistica è oggi ancora meno spendibile di quanto non fosse nel 1915. Ma, obietta la Nussbaum, le arti «sono essenziali per la crescita economica e per una sana cultura aziendale. L’innovazione richiede intelligenze flessibili»; e, se mancano la letteratura e le arti, «la cultura aziendale si indebolisce in fretta». Ammesso e non concesso che lo scopo di un’educazione umanistica sia quello di far fiorire la «cultura aziendale», affermazioni del genere ricordano troppo quelle che si leggono nei siti dei dipartimenti di Humanities, e che stanno lì per attirare gli studenti che vorrebbero tanto fare i manager ma non sanno la matematica. Un dipartimento di filosofia non deve produrre dei manager, deve produrre degli studiosi di filosofia; se viene fuori un manager, benone, ma impostare il discorso sullo slogan «Guardate che con noi potete anche fare i soldi!» vuol dire truccare le carte.

Per cui si tratta di capire proprio questo: se una formazione umanistica abbia un senso in sé, al di fuori della «cultura aziendale». La Nussbaum sostiene che i buoni libri servono a formare dei buoni cittadini democratici. Vero, ma il problema è che la formazione dei cittadini compete e interessa agli Stati. In un’epoca nella quale gli Stati diventano sempre più poveri, è difficile immaginare chi potrebbe accollarsi questo investimento a fondo perduto in cultura disinteressata.

La Nussbaum non dà risposte, o meglio, le sue risposte suonano come pii desideri, e certi suoi pii desideri suonano un po’ sinistri: «Ci sono tante opere d’arte che stimolano simpatie inopportune. I bambini a cui si chiede di allenare l’immaginazione leggendo letteratura razzista, o coltivando l’oggettivazione pornografica della donna, non crescono certo in maniera consona alla cittadinanza democratica. La componente immaginifica della formazione democratica richiede un’attenta capacità di selezione». Non so a chi pensi la Nussbaum parlando di «opere d’arte» razziste o pornografiche messe in mano ai bambini, ma qui il suo zelo democratico va oltre la political correctness (onnipresente, nel libro: ed estenuante) e, diciamo, stinge nella censura.

Forse per smetterla col piagnisteo bisognerebbe ridescrivere le cose in un modo diverso. Negli ultimi due secoli gli artisti e i filosofi hanno ben lavorato. Non è solo la tecnologia ad aver cambiato il nostro modo di vivere: sono anche le loro idee, diventate col tempo sentimenti comuni, nozioni comuni. Le loro opere sono state studiate nelle nostre scuole e hanno contribuito a formare quelli che chiamiamo ‘umanisti’. Anche loro hanno ben lavorato. Ora le cose sono cambiate. È probabile che il curriculum umanistico continuerà ad esistere, ma un po’ ai margini rispetto a quella che si chiama “formazione professionalizzante”. Ma è sempre stato così. Forse quello su cui bisogna scommettere è l’umanesimo diffuso, la trasmissione dell’arte e delle idee al di fuori delle aule scolastiche. Se uno si guarda bene attorno – e vede i film, ascolta le canzoni, legge i blog – qualche tenue segno di speranza lo trova.

* Docente presso l’Università di Trento

Saturno, Il Fatto Quotidiano, 18 marzo 2011

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