Siamo in guerra, ma la cosa passa tra le tante notizie, senza grossi turbamenti. Come mai questa anestesia?

Esiste un sottile inganno che viene perpetrato da molto tempo nel sistema democratico spettacolarizzato nel quale viviamo, ed è quello per il quale ognuno di noi, imbeccato dall’informazione più o meno “ufficiale”, si sente ingaggiato non solo nell’esprimere opinioni che riguardano le scelte geopolitiche, i destini finanziari, le scelte economiche del proprio paese, ma anche nel rappresentarne attraverso la propria decisionalità in qualche modo le sorti. Insomma, piccoli commissari tecnici del Risiko geopolitico crescono e si sentono in prima linea a difendere il buon nome della civiltà.

Si tratta però di un’illusione ottica di gigantesche proporzioni. Si, perché le decisioni che contano sul serio sono quelle che riguardano la nostra vita, le nostre reti di appartenenza ed i loro eventuali cambiamenti, tutto il resto è una falsa condivisione e partecipazione, in sostanza una “falsa coscienza” populista. Quindi, una cosa è l’”idea” e la “sensazione” di partecipazione e di decisionalità, un’altra cosa è la concreta partecipazione e decisionalità riguardo la propria vita. Potremmo dire che qui in mezzo ci passa una differenza abissale, la stessa che passa tra un sondaggio e la realtà.

Ma qual è il meccanismo psicologico che entra in gioco in questo caso? È l’empatia, la capacità innata degli uomini di immedesimarsi e farsi carico degli altri. Nobile sentimento, non v’è dubbio. In questo caso però è legittimo sospettare che l’empatia verso chi prende le decisioni politiche sia sostanzialmente manipolata.

Viviamo in effetti in un’epoca ben strana, ad un apparente maggior coinvolgimento nelle sorti del mondo, corrisponde un aumento di confusione, di passività, di astensionismo, di distacco dalla realtà. Ad un apparente libertà di accesso a tutte le informazioni, corrisponde di fatto una riduzione della coscienza civica e politica e un allentamento dei codici comunitari che costruiscono le nostre appartenenze e identità. Fenomeni paradossali, ma neanche tanto per chi li studia solo un po’.

Prendiamo il caso attuale della guerra in Libia, dove tutto è avvenuto in maniera talmente rapida da rischiare di non renderci conto che si tratta di una guerra che ci vede in prima linea e che sta avvenendo proprio dietro il nostro uscio. E soprattutto che si tratta di una guerra decisa sopra la testa dell’opinione pubblica di tutto il mondo occidentale in nome di ragioni umanitarie e democratiche. Come è potuto succedere che ci si è trovati di fronte ad un “gioco fatto”, senza nessuna protesta? Ovvio, l’opinione pubblica è da tempo sempre più assopita e assai malleabile e non si traduce più in dissenso costruttivo.

Da dove cominciare allora per imparare a sottrarci alla manipolazione e dare alla nostra decisionalità maggiore concretezza?

Uno spunto potrebbe essere innanzitutto quello di uscire dai panni dei nostri governanti e dall’illusoria condivisione di responsabilità delle loro scelte, di cominciare a rivedere l’acritica metabolizzazione dell’informazione che ci arriva dai vari organi di stampa, in favore di un pensiero critico capace, ad esempio, di porsi domande scomode come “a fronte della situazione che mi viene rappresentata, chi ci guadagna? Chi ci rimette? Chi si avvantaggia ed a sfavore di chi?”.

Ed ancora: come è possibile che la sorte degli oppressi popoli arabi sia diventata improvvisamente così rilevante, tanto da acconsentire di rischiare la nostra vita per difenderla? E cosa dovremmo fare allora per tutti i popoli oppressi del mondo, una guerra permanente? Quanti di noi conoscono la mappa delle genti oppresse nel mondo? Perché la rappresentazione mediatica mi rende visibili ed empatizzabili solo alcuni, mentre di altri non mi dà neppure l’opportunità di conoscerne l’esistenza? Ed allora perché si sceglie di ingaggiare una guerra per salvare proprio quel popolo oppresso e non i rimanenti altri?

È chiaro che tutto ciò dimostra, come se ce ne fosse bisogno, che siamo imbeccati ed orientati a scegliere ed al contempo la dimostrazione che ciò che risulta carente è un pensiero critico circa le informazioni che ci arrivano e che c’impediscono, per come sono divulgate, di distinguere e dunque di poter scegliere veramente.

Il ritiro dell’empatia verso chi decide (di fatto sopra la nostra testa) apre dunque uno spazio di critica costruttiva sul sistematico inganno mediatico e ri-orienta la nostra capacità d’immedesimazione su variabili meno astratte e meno virtuali e più prossime alla realtà di vita di ognuno di noi. Si provi, ad esempio, ad immedesimarsi in chi la guerra la subisce e ci perde la vita, e si provi a pensare che ben presto costoro potremmo essere proprio noi. Forse la voglia di comprendere certe ragioni umanitarie taroccate o certa realpolitik ci passerebbe d’un colpo.

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