L’acquisto di Marco Di Vaio, effettuato proprio allo scadere del mercato estivo 2008/2009, aveva tutto l’aspetto del ripasso dell’ultimo minuto prima dell’interrogazione decisiva. Inutile, insomma. Ma guai a ricordarlo adesso. Non c’è nessuno in città disposto ad ammettere, quell’estate, di averlo etichettato troppo presto come adatto ad essere servito con la salsa giardiniera sul carrello dei bolliti. Fa niente, sia un Paese dalla memoria corta, e nel calcio anche di più.

Ora quindi Marco Di Vaio, nato a Roma quasi 35 anni fa, è un idolo. Da un momento all’altro t’aspetti di sentirlo parlare in bolognese, tanto è diventato rossoblù. In un’intervista si fece fotografare sotto la doccia con indosso la divisa del Bologna FC, tanto quella maglia è diventata la sua “seconda pelle”. E’ il Capitano, il Simbolo, l’Uomo della Provvidenza – quello che evitò che si festeggiasse il centesimo compleanno della squadra in B. Figura intoccabile, raro caso di calciatore applaudito anche nelle giornate-no, capace di dribblare anche i mugugni del temutissimo settore dei “distinti” del Dall’Ara, quello dei milordini. Tutto guadagnato, per carità, a suon di goal e di comportamenti da vero leader.

I numeri sono molto chiari. Nella sua prima stagione sotto le Due Torri segnò 24 reti in campionato (il 58% del totale della squadra, il più incisivo d’Europa) salvando quasi da solo una formazione allo sbaraglio più completo. L’anno scorso, dopo un rinnovo contrattuale estivo in cui puntò i piedi per strappare un ingaggio più alto, centrò la porta avversaria 12 volte. Si dirà: la metà! Sì, ma furono tutti gol decisivi per evitare al Bologna, ancora una volta, la retrocessione in Serie B. Quest’anno è già a quota 18, e mancano ancora otto partite. Ha già indossato la casacca rossoblù numero 9 per più di 100 volte.

Serve altro? Sì serve, perché i numeri non sono sufficienti a spiegare come quel ragazzo un po’ musone che si ricordavano a Parma e a Torino abbia conquistato l’esigente e freddina piazza bolognese. Marco ha vinto anche fuori dal campo. L’ha detto lui stesso, recentemente, “qui sono cresciuto come uomo”. In nessuna squadra nella quale era stato (e ne ha girate molte: Lazio, Verona, Bari, Parma, Salernitana, Juventus, Valencia, Monaco e Genoa), è vero, aveva avuto tanta responsabilità e anche tanta fiducia da parte dello staff tecnico. Ha ammesso più volte che in bianconero non ebbe la pazienza di fare l’attaccante di scorta a Del Piero e Trezeguet, ma che con la testa di oggi forse sarebbe riuscito a sfondare nel club bianconero.

Oggi ha perso la frenesia del ragazzo senza perdere la velocità e l’istinto dell’attaccante di razza. Oggi sa che c’è tempo, che quando allaccia i suoi scarpini “Sara” e “Sofia” (i nomi delle figlie) deve solo scappare ai difensori avversari, senza dimostrare niente a nessuno. Se n’è accorto anche il Commissario Tecnico della Nazionale, Cesare Prandelli, che un paio di giorni fa ha dichiarato che – se fosse la partita decisiva – chiamerebbe, oltre a Totti e Del Piero, anche Marco. Invece i “vecchi” stanno fuori dal progetto azzurro per ragioni anagrafiche ma il Capitano rossoblù vorrebbe un ultimo regalo: “Mi piacerebbe tornare in Nazionale ancora una volta, anche solo per un’amichevole. Sarebbe bellissimo.”

Adesso Marco Di Vaio rinnova il contratto, firmando fino al giugno 2013, quando sarà alle porte dei 37 anni. Si dice che, per restare qui, abbia rinunciato alle offerte delle tre grandi: Juve, Inter e Milan. Quelle che ti seducono quando hanno bisogno, e ti mollano quando hai bisogno tu. A Bologna non l’ha mai lasciato solo nessuno, e questo un uomo adulto se lo ricorda. Ora è stato insignito anche con il Nettuno d’Oro che, prima di lui, la città aveva tributato ad Alberto Tomba e all’indimenticato Giacomo Bulgarelli. Sicuramente al premio ha contribuito la doppietta con la quale ha consentito al Bologna di andare a vincere a casa della Juventus a trent’anni dall’ultima volta.

Nei suoi due anni e mezzo in rossoblù Capitan Di Vaio ha visto le vicende più grottesche a livello societario: da Joe Tacopina, l’americano che si fece di nebbia dopo una conferenza stampa funambolica, allo spettro di Luciano Moggi; dal petroliere albanese Rezart Taci – che rifiutò in extremis l’acquisto del club inviando un fax all’ufficio sbagliato – fino alla cordata di quest’anno: Consorte, Zanetti, l’azionariato popolare e i tre punti di penalizzazione. E Di Vaio? Lui è rimasto lì: sereno, pacato, perfetto nelle dichiarazioni e nel proteggere la squadra, tanto che nell’anno del Centenario e dei suoi tantissimi eventi (il 2009) è sempre stato lui l’uomo sicuro sul quale puntare per tutte le uscite pubbliche. “Chi chiamiamo per… (superfluo finire la frase)” “Di Vaio, tranquilli.”.

Detto del campo, detto degli eventi pubblici, Di Vaio è stato leader e “buon padre di famiglia” anche dentro lo spogliatoio. Lì, dove si lavano i panni sporchi che nessuno deve vedere, Marco è sempre stato pronto ad assumersi le proprie responsabilità e ad incoraggiare i compagni. Per i più giovani non è stato solo un riferimento, ma anche un sostegno. Nei primi mesi di questa stagione, quando gli stipendi non arrivavano, lui s’è offerto di dare un aiuto tangibile ai ragazzini più giovani del gruppo, quelli che non possono contare su ingaggi faraonici. La sua mano tesa, poi imitata anche da altri compagni “anziani”, ha cementato il gruppo. “Gruppo” parola abusata? Forse, ma cos’altro sta facendo la differenza, quest’anno, se la somma dei singoli non consentiva certo di sperare di essere già salvi a due mesi dalla fine del Campionato?

Alessandro Marchi

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