Al rapporto tra vita e diritto dedica interessanti riflessioni Stefano Rodotà, nel suo La vita e le regole, Feltrinelli, 2009. Se c’è un settore della vita dove il diritto ha grosse difficoltà a penetrare è, come dimostrano le tragiche vicende di questi giorni, proprio quello della guerra. Come giuristi democratici ci siamo sempre sforzati, sin dai tempi della prima guerra del Golfo, di evidenziare la differenza fondamentale esistente tra un impiego della forza sul piano internazionale, lecito perché autorizzato dalle Nazioni Unite, e la guerra, vietata in quanto tale dal diritto internazionale.

A tale scopo il Capo VII della Carta delle Nazioni Unite aveva previsto un sistema di garanzie, basato sul rapporto tra Consiglio di sicurezza e Comitato di stato maggiore, che non è mai venuto in essere perché tale Comitato non è mai stato istituito. Ne consegue che sono le potenze a condurre le azioni di polizia internazionale e a trasformarle in guerra, violando in tal modo il divieto del diritto internazionale.

Quello della Libia è un case in point. Secondo la risoluzione n. 1973, l’azione militare doveva servire a proteggere i civili, a pochi giorni dalla sua adozione assistiamo invece a bombardamenti su larga scala sulla Libia, le cui vittime sono ovviamente i civili stessi, mentre, un giorno sì e un giorno no, la Clinton ripete (e il servizievole Frattini, passato dal ruolo di sgabello umano del rais a quello, più abituale, di docile domestico degli yankees, le fa eco),  che il vero obiettivo della guerra è Gheddafi, il nuovo emblema del male assoluto.

“Dovevamo quindi far morire i ribelli di Bengasi?”, chiederanno a questo punto i sostenitori dell’intervento. A questa domanda tre risposte, da tre punti di vista diversi, ma in fondo complementari:

1. Non si sono mai visti degli insorti che, dopo aver perso l’insurrezione, chiedono aiuto alle potenze straniere. A più attenta analisi, i cosiddetti rivoluzionari di Bengasi rappresentano una parte del vecchio regime che è entrata in conflitto con Gheddafi (si veda al riguardo l’interessante analisi contenuta in www.contropiano.org).

2. Un tempestivo intervento politico (parola deprecata e con qualche ragione dalla generazione del Grande fratello, ma che tuttavia conserva una sua razionalità e un suo senso) della comunità internazionale avrebbe salvato molte più vite umane e la prospettiva di una pacificazione nazionale in Libia. Ma alle potenze non interessano tanto le vite dei civili e la pace, pretesti buoni solo per i fessi, quanto il petrolio e il gas naturale libici, da ottenere anche attraverso una spaccatura del Paese.

3. Perché a questo punto non si fermano, dato che il governo libico ha proclamato il cessate il fuoco e molti degli Stati che pure hanno assecondato la risoluzione 1973, come la Russia, la Cina e la Lega araba lo chiedono con forza?

E l’Italia che fa? La momentanea scomparsa dalle scene dell’osceno nanerottolo non ci ha certo lasciato un’immagine internazionale più dignitosa, se è vero che dietro l’amabile vecchietto che si affanna a ripetere che “non siamo in guerra”, fa capolino il bieco La Russa, che dichiara che siamo pronti a tutto… Sicuramente c’è un’Italia migliore, ma chi la rappresenta oggi?

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