Il “mercato”, il consumo e il “progresso” illimitati vanno benissimo per i Grandi Animali, ma sono la morte per noi comuni esseri umani. “E’ sempre stato così”. Sì, ma qua finisce male.

“No all’emotività! Forza, nucleare!”. Sarebbe facile polemizzare col nostro signor governo e la nostra Confindustria che, mentre i tedeschi chiudono le centrali e i giapponesi cercano disperatamente di salvarsi la pelle, non sanno dire altro che “E’ successo qualcosa?”. Facile, ma in fondo ingiusto. Perché la bestialità della nostra orribile classe dirigente, la più disumana e la più ignorante che questo disgraziato Paese abbia mai avuto, fa leva sul nostro sogno, sulla nostra inespressa ma convintissima utopia: che possiamo andare avanti tranquillamente così, sfruttando sempre più la natura, picchiando chi riceve di meno e ruttando felici in un dopo pranzo sempre più inacidito.

Non è così. Il Giappone, molto più civile e tecnologico di noi, era sopravvissuto a duemila anni di terremoti e tsunami: e adesso sta crepando semplicemente perché (a dispetto di una sua cultura antichissima, bollata come “vecchia” e “superata”) s’è messo a costruire centrali nucleari in mezzo alle faglie sismiche. Modernissime, “sicure”, dotate (tranne quella mantenuta in servizio per le pressioni dei politici) della migliore tecnologia. E sono saltate per aria. Perché?

Per lo stesso motivo per cui si rompe un vaso in una stanza in cui si gioca a pallone, per semplice statistica: prima o poi. E perché, se lo sapevano, non si sono organizzati? Per semplice rimozione mentale, come lo struzzo: per eliminare il pericolo non bastava “rendere più sicure” le centrali (o mettere il vaso un po’ più in alto), bisognava abolirle del tutto (“Bambini, in questa stanza non si gioca a pallone”). Ma questo avrebbe significato treni un po’ meno veloci, automobili un po’ meno grosse e così via (“Ahhh… cattiva mamma! Non ci vuoi fare giocare!”). La gente, non solo i politici, non l’avrebbe accettato. La stessa gente che adesso è intenta a razionarsi l’acqua e a seppellire i morti.

“Il Giappone è lontano”. No, il Giappone è qua. Intanto, perché fra un anno probabilmente dovremo stare più attenti all’acqua che beviamo, all’insalata che mangiamo e così via (e già c’era da stare attenti prima). Poi perché la crisi economica (l’economia è mondiale) sarà tremenda e la pagheremo, anche qua, noi semplici cittadini. E poi perché il modello Giappone (con molta più rozzezza e intrallazzo, all’italiana) è esattamente il nostro, quello in cui viviamo: comprarsi più giocattoli, fregarsene della natura, manganellare i poveri, sedare con chiacchiere e botte le spaventate proteste (“Che avvenire ho?”) dei nostri figli. Illudendoci che funzioni, che vada avanti.

L’utopia dello struzzo: testa sotto la sabbia, chiappe all’aria, convinto che il pericolo è lontano e che tutto va bene.

Non serve una “svolta politica” (certo che serve, e subito: ma non basta). Ci vuole proprio una svolta di sistema. Socialismo, buddismo, impero Ming? E che ne so: io voglio semplicemente salvarmi la pelle, e voglio non essere pisciato addosso nella mia tomba da mio nipote – se sopravviverà e se ci saranno ancora delle tombe. Voglio che cambi parecchio, e non solo alla superficie, e anche alla svelta. La mia vita, e quella del mio nipotino, non può restare in balia di pazzi politici, terremoti, multinazionali ciniche ed economie senza controllo. Per i terremoti non ci possiamo far niente. Ma per il resto sì, e dobbiamo sbrigarci perché c’è poco tempo.

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