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Vito Ciancimino, Nicola Mancino, Marcello Dell’Utri, Silvio Berlusconi: quattro nomi omessi in 14 anni di pentimento. A parlarne è Giovanni Brusca, un tempo potente capo della famiglia di San Giuseppe Jato: quello che ha premuto il telecomando per far saltare in aria Giovanni Falcone, la moglie e la sua scorta; quello che ha deciso la morte del piccolo Santino Di Matteo”. Lo racconta L’Espresso in edicola domani con un articolo firmato da Lirio Abbate

Ma chi è Brusca? Abbate racconta: “E’ stato catturato nel 1996. All’inizio ha tentato una manovra per screditare politici e magistrati, ma è stato smascherato. Allora ha fornito una collaborazione ampia: è stato il primo a rivelare “il papello” e la trattativa tra Stato e cosche nel 1992. Ma lo scorso settembre gli inquirenti hanno scoperto che continuava a gestire traffici e ricatti, proteggendo un tesoro accumulato con i crimini. Ora rischia di perdere i benefici e di essere retrocesso da “pentito” a dichiarante. Adesso – si legge ancora – di fronte alla possibilità di vedere chiudersi le porte del carcere per sempre, senza più permessi, sostiene di volere raccontare la seconda parte della sua storia criminale. Completando un quadro che era già stato in parte intercettato dalle microspie nella sua cella. E ha rotto il silenzio mirato a «non rendere dichiarazioni su persone che sono state “disponibili” con Cosa nostra».

L’Espresso rivela il contenuto dei nuovi verbali di Brusca nei quali “si parla a lungo di Silvio Berlusconi“. Nei verbali il pentito “cita i capitali che sarebbero stati investiti da uomini del padrino Stefano Bontate nelle attività imprenditoriali di Berlusconi negli anni Settanta; dichiara che il fondatore della Fininvest pagava ogni anno a Bontate 600 milioni di lire”. Dopo la morte del padrino, ucciso dai corleonesi nel 1981, i versamenti cessano. Allora – spiega il dichiarante – nel 1986 Ignazio Pullarà fa piazzare dell’esplosivo nella cancellata della residenza milanese di Berlusconi. Una missione nascosta a Riina, che si infuria e decide di gestire personalmente i rapporti col Cavaliere. Che – secondo Brusca e secondo quanto si legge sul settimanale – dopo la bomba ricomincia a pagare mezzo miliardo, direttamente al capo dei capi. «Poi quando venne ucciso Salvo Lima, mi disse che Ciancimino e Dell’Utri si erano proposti come nuovi referenti per i rapporti con i politici».

Nell’articolo si parla anche del ruolo del senatore azzurro Marcello Dell’Utri che «era visto come erede di Bontate perché vicino a quest’ultimo». Brusca spiega che Ganci riferì a Riina: «Dell’Utri è a disposizione». E sottolinea come nel 1993 il collegamento possibile «con il nuovo movimento politico Forza Italia che sta per nascere passa sempre da Dell’Utri». Un legame cementato con ricatti espliciti: parla di messaggi inoltrati a Berlusconi attraverso Mangano, sostiene che alla fine del 1993 furono minacciate altre bombe come quelle di Roma, Milano e Firenze. «Un modo per metterlo in difficoltà» con il governo che si apprestava a guidare, se non avesse varato leggi in favore di Cosa nostra.

Nella seconda parte dell’articolo, Lirio Abbate racconta la cosiddetta “fase due della trattativa Stato-mafia: “Secondo Brusca l’intesa con Forza Italia è la fase due di una strategia nata all’indomani di Capaci – si legge nell’articolo – Nel luglio 1992 – prima dell’autobomba di via D’Amelio – c’era stato il tentativo di venire a patti con le istituzioni, mediato da Vito Ciancimino. E Brusca ribadisce che il referente ultimo della trattativa era Nicola Mancino, all’epoca ministro dell’Interno e uomo forte della Dc”. L’ex boss ricorda quando Riina gli fece il nome di Mancino come la persona che doveva rispondere alle richieste del “papello”. Mette a verbale anche «il disprezzo» di Leoluca Bagarella, cognato di Riina, che commenta la notizia dei vetri blindati installati per proteggere la casa di Mancino. Nicola Mancino, ex vicepresidente del Csm, ha sempre respinto ogni ipotesi di un suo ruolo nella vicenda”.

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