La Storia non si fa con i “se”. La Storia, appunto: non il futuro! Se non possiamo immaginare una Storia diversa, un diverso futuro che non sia perpetuazione del presente o del recente passato, quello sì che possiamo immaginarlo, anzi dobbiamo farlo. Tutto dipende dai “se”: i “se” sono le ipotesi che possiamo aprirci davanti oggi per puntare a un diverso futuro, magari migliore del presente o del recente passato. Ed è di uno di questi “se” che vorrei parlare per immaginare un’evoluzione del nostro sistema democratico perché, continuando così, ritengo non solo che non andremo da nessuna parte, ma che ci faremo anche molto male.

La nostra carta costituzionale riconosce la sovranità al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione (art. 1). Le forme immaginabili nel 1948 per esercitare tale sovranità non sono certo quelle che potremmo adottare oggi. Da qualche anno, alla nascita, ci viene assegnato un codice fiscale. E se a tale assegnazione venisse contestualmente affiancata quella di un identificativo digitale unico come le impronte digitali o addirittura di una e-mail così composta: codicefiscale@popolosovrano.it? Non disporremmo forse così di un modo diretto di esercitare la sovranità?

Immaginiamo, tanto per cominciare, una scelta a livello di amministrazione locale: chiudere o meno una piazza oppure un’area del centro storico al traffico veicolare privato. I cittadini residenti nel Cap interessato verrebbero preavvistati del tema e interpellati attraverso una votazione on-line. Potrebbero pronunziarsi per la chiusura oppure per l’apertura al traffico e la loro scelta si ritroverebbe in virtuosa competizione con quella adottata da un altro quartiere o un’altra città.

Nel tempo si affermerebbe il modello foriero di maggiore benessere e qualità della vita perché nessuno vuole consapevolmente e deliberatamente il male comune, anche se di fatto questo si persegue, spesso e volentieri, quando ci si illude di cercare il bene comune attraverso il soddisfacimento di interessi particolari.

Sulla qualità ed efficienza dei servizi pubblici (ciclo delle acque, dei rifiuti, della mobilità, dell’energia, ecc.) questo modello di democrazia diretta avrebbe soprattutto il compito di confermare o meno la fiducia ad amministratori tecnici, selezionati magari da società di cacciatori di teste così come avviene nelle grandi imprese private. La stessa burocrazia diverrebbe un’organizzazione tecnica e meritocratica (e sempre meno uno stipendificio clientelare) che risponderebbe non più ad una casta di “rappresentanti del popolo”, ma direttamente ed in modo trasparente al popolo stesso.

Non ci sarebbe più bisogno di organismi rappresentativi come i consigli regionali, provinciali, comunali, circoscrizioni, ecc. perché si sarebbero ricreate virtualmente le piazze dove la democrazia stessa è nata. Ancor oggi, non c’è nulla di più democratico di una piazza o, se vogliamo, di una riunione di condominio. Il sindaco, il presidente di un territorio come una regione possono ben essere paragonati ad un capocondomino oppure ad un amministratore di condominio, se professionista esterno.

Ci sarebbe solo bisogno di garantire par condicio nell’accesso all’informazione (pensiamo al Wi-Max) e di un ruolo, anch’esso diverso da quello che conosciamo oggi, dei mezzi di informazione e dei portatori di interessi, economici e non (associazioni, movimenti, ecc.). I primi dovrebbero puntare all’autorevolezza delle proprie opinioni indipendenti e ad accumulare reputazione come opinion leader mentre i secondi potrebbero manifestare apertamente natura e portata dei propri conflitti di interessi, ma anche le ricadute occupazionali, di reddito (per i cittadini) e di imposte (per l’erario) che una determinata iniziativa genererebbe: dalla Tav ai termovalorizzatori, ovvero ad altre soluzioni per lo smaltimento dei rifiuti, alla realizzazione di infrastrutture nei settori della distribuzione, della logistica, dell’energia, ecc.

Certo, non tutti i cittadini manifesterebbero lo stesso grado di partecipazione alla gestione della cosa pubblica e molti si limiterebbero a delegare o lasciare l’iniziativa ai più attivi, ma ciò avviene già oggi, con la differenza che la cittadinanza attiva (una minoranza) non gode della stessa “leva” di cui godono le oligarchie partitiche (altra minoranza). Faccio un paragone. Esiste una democrazia più ristretta, per portata e importanza, che è quella finanziaria, quella delle grandi società, quotate e non: i principi democratici sono analoghi e viene, talora, pure previsto il voto capitario. Il controllo di una grande società conosce però il meccanismo della leva societaria (le cosiddette scatole cinesi) attraverso il quale un portatore di interessi minoritari controlla sia gli amministratori che le scelte effettive. Le oligarchie dei partiti e le leggi elettorali, di fatto, rendono la democrazia civile, troppo spesso, solo un’apparenza, un’illusione che paghiamo cara.

Recentemente, grazie all’azione dei movimenti, una città come Catania che non brilla certo in testa alle classifiche per qualità della vita, ha adottato un regolamento attuativo degli istituti di partecipazione popolare alla vita amministrativa della città molto innovativo. Si parla di albo delle associazioni (art. 41), diritto di udienza (art. 42), diritto di istanza (art. 43), diritto di petizione (art. 44), di iniziativa popolare (art. 45), di consultazione popolare (art. 46) e di diritto di referendum (art. 47).  Questa è a mio avviso la strada maestra da percorrere per moralizzare e rendere più efficiente e corrispondente ai veri bisogni dei cittadini la vita delle nostre città prima di arrivare alle più futuristiche forme di sovranità sopra accennate.

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