Cultura

A teatro con le Luci della Centrale elettrica

di Pasquale Rinaldis

Hanno scelto il Teatro Dante a Palermo come cornice per il lancio dell’ultimo album, Per ora noi la chiameremo felicità, un disco che a quasi tre anni da Canzoni da spiaggia deturpata, ha imposto il gruppo capitanato da Vasco Brondi come fenomeno del movimento Indie italiano. E’ stato un gran concerto, grazie soprattutto alla capacità del frontman di coinvolgere un pubblico che timidamente riesce a spezzare la staticità che si crea durante un’esibizione in teatro. Molti si avvicinano al palco, Vasco Brondi stesso scende e si siede di fronte a una schiera di Reflex digitali che immortalano ogni singolo fotogramma delle sue movenze.

E’ sull’interrelazione che Brondi gioca le sue migliori carte e i suoi assi sono le parole, a tratti sussurrate, a tratti gridate. Ed è ai sussurri e alle grida di un’intera generazione che le sue canzoni si rivolgono. Da Ferrara a Palermo, così come in qualsiasi altra città. Perché più che una storia è un insieme di scorci, frammenti minuziosamente osservati e gettati in faccia senza tanti complimenti, con la schiettezza che soltanto chi non ha ideologie da sbandierare o messaggi salvifici può avere.

Far le canzoni non è una cosa fatta con uno scopo preciso, non sono fatte per portarmi da nessuna parte e non sono fatte per insegnare niente a nessuno. E’ una forma di comunicazione strana. Se poi gli attribuisco un senso, comunque succede dopo che le ho fatte, come potrebbe fare qualcun altro. Quel che mi interessa in una canzone, non necessariamente mia (anche quelle di altri, che sento) è che abbia a che vedere con il guardarsi attorno e guardarsi contemporaneamente dentro, che tenga a mente sempre queste due dimensioni, che vanno assolutamente assieme. Non sopporto le canzoni che parlano solo di temi astratti e bandiere da sventolare”.

Se un estremismo c’è è tutt’altro che ideologico: sta proprio in questa comunicazione, un estremismo relazionale forse?
C’è un guardarsi attorno attentamente, anche quando la situazione non è eccellente, e eccellente non lo è mai. E’cercare di innescare un motore propulsivo, avere una sorta di coraggio nel sentire anche la bellezza dei nostri tempi e dei nostri posti. I posti di cui parlo sono belli, sono quelli in cui si vive. La gente vive questi panorami che abbiamo a disposizione. E’ uno stereotipo la “bellezza” di un paesaggio. In questo senso mi piace semplicemente parlare della “realtà”, di quel che ho attorno: è l’unica cosa che mi viene da fare, che riesco a fare con sincerità.

Quel che arriva a un primo ascolto di Per ora noi la chiameremo felicità è un turbinìo di intercettazioni messe insieme come in un collage, dove pezzi di romanzi stanno a fianco di stralci di conversazioni notturne, senza distinzioni di sorta.
Faccio veramente fatica a dividere tutto in settori, a dividere la “cultura alta” da quella “bassa”. Nelle mie canzoni ci sono entrambe le cose, ci sono citazioni da Leo Ferré, Tondelli (Pier Vittorio scrittore di culto degli anni Ottanta, ndr), così come una conversazione fatta con un mio amico che non sa neanche tenere in mano la chitarra. Spero ci sia dentro tutto quello che mi capita di intercettare, camminando normalmente e che mi resta impigliato dentro, finendo così nelle mie canzoni. Dalle immagini che vengono da grandi scrittori o registi, come da un’altra persona o cosa che vedo passare. Mi viene da mischiare un po’ tutto. Ci sono delle cose che amo moltissimo che non si sentono nelle canzoni, delle altre cose che neanche conosco e che alla gente sembra sentire dentro i testi. Mi sento in questo paradossalmente non indispensabile alle Luci, nel senso che ci sono cose “già nell’aria”, io semplicemente le metto insieme.

Quali possono essere le differenze, le possibili evoluzioni dal primo al secondo album delle Luci?
Stiamo parlando di musica, di qualcosa che ha a che vedere coi sentimenti, non del nuovo modello della Ford! Non stiamo dunque parlando di accorgimenti furbi per far diventare una cosa più o meno interessante per qualcuno. Non mi interessa per niente, come non m’è mai interessato, e mai mi interesserà. Mi interessa esser sincero con me stesso, far quel che ho voglia di fare, cosa che ho sempre fatto, che fosse lavoro o meno. Il resto sono tutte chiacchiere da parrucchieri cui la musica facilmente si presta. La musica è bellissima proprio perchè è immediata, porta in sé una superficialità di fruizione, per cui se ne parla tanto, ma come qualsiasi altra cosa! Ma non è cosa che mi interessa: quel che si deve sentire si sente, quel che c’è da spiegare vuol dire che non è arrivato, che c’è un problema nella cosa in sé.

Intervista di Giuseppe Pipitone & Giulia Riili

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