Cultura

A Sanremo va in scena il Festival dell’Unità

Grande show di Roberto Benigni nella serata dedicata al centocinquantesimo anniversario. Dopo cinquanta minuti di satira politica il comico canta l'Inno di Mameli con una serietà che è davvero un omaggio al Paese

di Silvia Truzzi

La coreografia che apre la serata dell’Unità sanremese è splendida, come al solito. E lo spettacolo c’è, con qualche stonatura (Giusi Ferrè che annega nel Cielo in una stanza) ma molte cose belle, da l’Italiano di Toto Cotugno eseguito dal bravissimo Tricarico che si conclude con un coro di nuovi italiani, figli di immigrati nati nel nostro Paese. Brava anche Nathalie che non vuol strafare e regala una bella esecuzione de “Il mio canto libero”. Tutto sembra placidamente “sobrio”, come da richiesta. Nessuno immagina quel che succederà: stasera è il Festival dell’Unità.

Tutti aspettano Roberto Benigni. Il toscanaccio era stato avvisato in vari modi da Mazza, Mazzi e perfino da La Russa: “Solo l’esegesi dell’Inno di Mameli”, è la serata delle istituzioni. Lui se ne frega e fa il bischero con tutti, da Pierluigi Bersani a Umberto Bossi. Ma anche, e soprattutto, con Berlusconi. Entra urlando “Viva l’Italia”, in mano il tricolore. È arrivato con il cavallo bianco (niente abito garibaldino): “Ma è un periodo che con i Cavalieri non va molto bene. Oh: è un cavallo della Rai, e come addomesticano i cavalli alla Rai….” Poi duetta con Morandi: “Tu a Garibaldi hai dedicato una bellissima canzone, Uno su mille ce la fa”. Comincia scherzare e a prendere in giro i cauti censori: “Siamo qua per parlare solamente dell’inno di Mameli”, esclusivamente di Fratelli d’Italia. “Del resto non ci sono altri argomenti., no? In tutto il mondo ridono di noi, lo sapete perché? Perché Morandi, ancora lui, presenta il festival. La prossima edizione la facciamo condurre a Bersani. Ma sto parlando dell’Inno di Mameli: ‘Dov’è la vittoria?’ sembra scritto dal Pd. Scusate, ora c’è questa par condicio, io ho paura di parlare. Però lo faccio, l’Italia è una bambina, una minorenne. Non ce la faccio a tenermi. L’avevo promesso, ma non ce la faccio. E poi perché anche Mameli era minorenne quando ha scritto l’inno. Voi dirette: ancora ‘sta storia delle minorenni non se può più. Ma scusate: è nato tutto qui. Con Giliola Cinquetti che cantava “Non ho l’età”, e che si era spacciata per la nipote di Claudio Villa. Se non ne potete più cambiate canale. Andate sul Due, no c’è Santoro”. Infatti ad Annozero stanno parlando La Russa, e non sono carezze. Come quelle di Luca e Paolo per il ministro, in platea: “Ministro non dica mai più cose belle su di noi, a casa non ci parlano”. Alludono ai calci a Formigli e chiudono così: “Ha investito un gatto, poi l’ha denunciato per suicidio”. Le loro sorprese non sono finite qui.

Benigni concentra la satira politica nella prima parte di 50 minuti bellissimi. E si occupa di parentele imbarazzanti: “Dunque. Ruby Rubacuori, è la nipote di Mubarak. Ma anche la Procura di Milano, accidenti: tutto questo tempo per fare degli accertamenti. Bastava vedere se Mubarak fa Rubacuori di cognome”. Dunque eravamo all’Italia unita. “Ancora prima di Mazzini, c’erano altri patrioti. Come Silvio Pellico, quello che ha scritto “Le mie prigioni”. Un libro memorabile. Prima di trovare un altro Silvio che scrive un libro così chissà quanto tempo passa… Poi a quei tempi c’era Vittorio Emanuele II, una casa reale meravigliosa. Fino a Emanuele Filiberto che s’è incontrato con Pupo a Sanremo. Cavour, che è stato il secondo più grande statista degli ultimi 150 anni. Alla fine della sua carriera, ci fu quello scaldaletto: lo beccarono con la nipote di Metternich”. Poi Benigni comincia la sua esegesi. Un discorso colto, profondo, pieno di verità storiche che sono ancora attualissime. “Un paese che non sa declamare i propri valori è pronto all’asservimento. Risorgimento è una parola meravigliosa, l’ha usata l’Alfieri per la prima volta”. E poi un racconto sulle donne del Risorgimento, che tanto hanno fatto pur senza avere diritti. Ricorda Wiston Churchill: “Era un personaggio meraviglioso, ci ha liberato dal nazismo. Ed era uno che quando la moglie gli comunicò che aveva perso le elezioni, disse: no, abbiamo vinto lo stesso. Perché l’importante per lui era arrivare alle elezioni”. Finisce l’esegesi, Benigni canta l’Inno senza musica, con una serietà che è davvero un omaggio all’Italia. L’Ariston si commuove, tutta la platea è in piedi. L’appello “Svegliamoci” non è caduto nel vuoto”. A questo punto la serata sembra finita. Ma Luca e Paolo, che al mattino avevano annunciato una performance di basso profilo dopo Benigni (ubi maior), lasciano tutti a bocca aperta. Si accendono i riflettori su Luca che inizia a leggere:

“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti”. Un passaggio bellissimo del testo illumina, con la voce di Paolo, l’Italia di oggi: “Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa”. Alla fine del testo (leggi l’integrale) si spengono le luci. Che all’improvviso, un attimo dopo, svelano una gigantografia sullo sfondo. È Antonio Gramsci.

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