Ormai è noto che il nostro paese si trovi ad anni luce dalla ricchezza culturale e dallo splendore artistico che lo hanno contraddistinto nel corso della storia, mentre Londra, oltre ad essere meta per molti italiani (e non) in cerca d’impiego, rappresenta oggi anche una sorta di punto nevralgico per l’arte e la cultura.

Portando il termine “arte” fuori da luoghi convenzionali quali musei, gallerie, sale concerto e simili, ci si accorge immediatamente di come qui si avverta una discreta libertà di esprimersi anche a livello del tutto amatoriale: chi ha qualcosa da dire è libero di farlo e solitamente c’è anche qualcuno che ascolta. E’ piuttosto semplice avere esempi pratici ed immediati di questa maggiore apertura. Basta farsi un giro in zone come Old Street, nell’East London, e notare come la street art si nasconda negli angoli degli edifici o prendere la metropolitana e ascoltare musicisti che, muniti di licenza e occupando spazi a loro appositamente dedicati, tentano di scaldare l’atmosfera della Londra sotterranea. Altri piacevoli luoghi di incontro con la cultura sono spesso i pub che ospitano mostre fotografiche, concerti o serate a microfono aperto. Questo genere di eventi non si vede spesso nei locali italiani, vuoi perché sono difficili da organizzare, vuoi perché comunque attraggono un numero di persone limitato.

A proposito di organizzazione, la burocrazia non fa più di tanto la differenza. In Italia abbiamo la Siae che, curando gli interessi degli artisti e dei loro diritti d’autore, distribuisce licenze in cambio di soldoni sonanti. Perfetto, lo stesso accade in Inghilterra dove esistono due enti con lo stesso scopo: la Prs for Music (Performing Right Society Ltd), che una volta sottratti i costi amministrativi recapita il denaro agli artisti, e la Ppl (Phonographic Performance Ltd), che si occupa dei diritti di autore per conto delle case discografiche. Questi due organismi sono indipendenti l’uno dall’altro, il che significa che entrambi vanno pagati se si intende suonare musica, anche solo da una radio, in un qualsiasi spazio pubblico, con tariffe che variano a seconda dell’evento e delle dimensioni del luogo.

Il vero nodo sembra essere il diverso atteggiamento del popolo inglese nei confronti delle performing arts. Chi ha un locale ed investe in musica è spinto a farlo perché ha un guadagno, creando al tempo stesso un ambiente di incontro e di scambio culturale. Sul sito della PRS for Music si può infatti leggere che in Inghilterra l’84% delle persone frequenta più spesso un pub nel quale viene suonata musica di proprio gradimento, ed un cliente su due è pronto a pagare una bevanda il 5% in più se nel locale viene suonata musica. Infine è stato calcolato che i locali che ospitano serate con musica dal vivo guadagnano in media il 44% in più di quelli che non organizzano questo tipo di eventi.

Siamo sicuri che le stesse percentuali siano valide anche in Italia? O siamo sempre più indifferenti all’espressione artistica di qualunque tipo e grado, diventando un popolo abbrutito dalla mediocrità della teledipendenza?

Luca Russo, giornalista italiano a Londra

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