Ieri su internet sono circolati i dati di un sondaggio sulle intenzioni di voto degli italiani. Dati che, se davvero dovessero riflettere la realtà, testimonierebbero una situazione agghiacciante per il Pd. Al partito di Bersani è infatti accreditato il 22% delle intenzioni di voto. Cioè, più o meno quanto fece registrare il Pds alla prima uscita elettorale dopo l’abbandono del nome “Partito Comunista Italiano”. Era l’inizio degli anni Novanta, e la fusione con un pezzo di ex Dc a fondare un nuovo partito era evento inimmaginabile. Adesso si scopre che una “ex metà” dell’attuale Pd faceva registrare vent’anni fa, in termini elettorali, il doppio di quanto varrebbe oggi il partito intero. Agghiacciante.

Certo, al dato si può e si deve fare ogni possibile tara. A partire dal fatto che stiamo parlando di un sondaggio, e perciò sui dati che esso presenta bisogna usare tutte le cautele del caso. Allo stesso modo, qualcuno sottolineerebbe che il sondaggio è stato commissionato da Sel, la formazione che fa capo a Nichi Vendola (la quale, non a caso, viene accreditata di oltre il 10%); e che dunque tale rilevazione e i suoi dati potrebbero essere “viziati” dalla competition a sinistra.

Obiezioni plausibili. Ma sarebbe suicida appigliarsi a esse e eludere la dura realtà: quella di un partito che proprio non riesce a far presa sull’elettorato, e continua a smottare inesorabilmente in giù. E questo, per l’elettorato di centrosinistra (tutto, intendiamo), è un problema serio. Del quale forse bisognerebbe cominciare a farsi carico tutti quanti. Anche coloro che, come me, non hanno mai particolarmente amato questo partito. Che però rappresenta un patrimonio di valori, sentimenti e sensibilità troppo importante per la coscienza dell’elettorato democratico italiano. Un bene troppo grande per lasciare che un gruppo dirigente lo sperperi in modo così sciatto.

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