Veronica ha diciotto anni, frequenta l’istituto tecnico di Bivona, un paese dell’agrigentino famoso per le pesche tardive e per poco altro. La ragazza vorrebbe andare a scuola regolarmente, come tutti, ma al mattino, con sé, non ha solo lo zaino con dentro i libri. A scuola deve portarsi dietro un bagaglio ben più ingombrante: la scorta, una pattuglia di carabinieri. Veronica è figlia di un testimone di giustizia. Suo padre si chiama Ignazio Cutrò, è un piccolo imprenditore che si occupa di movimento terra.

Ignazio è un uomo grande grosso con una faccia generosa e aperta. Come Libero Grassi, lui ai mafiosi non ha mai voluto pagare neppure un caffe. Ha detto chiaro e tondo che da lui soldi non ne avrebbero mai avuto, potevano bruciargli i mezzi, potevano fare quello che volevano, potevano anche ammazzarlo, ma il pizzo non lo avrebbe mai pagato.

Ignazio non solo non ha pagato, ha fatto di peggio: i mafiosi che gli chiedevano il pizzo, che gli bruciavano le ruspe, li ha denunciati, li ha mandati in carcere sepolti sotto anni di galera. E si trattava di uomini di rispetto: gli esponenti del clan Panepinto, legati a Maurizio Di Gati, il boss di Racalmuto che controllava la mafia della bassa Quisquinia, poi passati alle dipendenze dei Lo Piccolo.

Da quel momento Ignazio e la sua famiglia si sono trovati soli. Niente più lavoro, niente più appalti né pubblici e neppure privati. Farlo lavorare significa mettersi contro Cosa Nostra e da queste parti non è igienico. Ignazio e la sua famiglia vivono blindati. Non muovono un passo, non fanno neppure un respiro senza la vigilanza dei carabinieri. E così Veronica a scuola deve andarci scortata dai militari.  Ma quegli uomini armati che la proteggono creano imbarazzo, disagio tra i genitori e i professori. Il Preside alla fine spiega chiaro e  tondo che così non va. Che quella scorta a scuola non è gradita. Veronica se ne torna a casa in lacrime. Per lei niente più scuola.

E’ l’ennesimo “grazie” che arriva ad Ignazio Cutrò dalla società civile, prima che dall’ottusità burocratica. “La cosa che più mi ha ferito – mi dice Ignazio al telefono – è stata l’assoluta insensibilità verso Veronica. Non c’è stato un cane che ha alzato il telefono per chiederle come stava, se avesse smesso di piangere. Eppure questa scuola fa le iniziative per la legalità, le conferenze, fa fare i temi su Falcone e Borsellino. Poi quando si tratta di fare i conti con la realtà questo è il risultato”.

Ignazio è un uomo solo, non frequenta i salotti televisivi e non fa ufficialmente parte degli “eroi dell’antimafia”. Le banche gli hanno chiuso le linee di credito e la Confindustria regionale, quella della “legalità” guidata da Ivan Lo Bello, ha fatto di peggio. Il Confidi nel 2007 aveva garantito Ignazio con il Banco di Sicilia per avere una linea di credito. Ma l’anno dopo Confidi ha revocato la garanzia e il Banco di Sicilia, presieduto dallo stesso Ivan Lo Bello, ha bloccato i conti di Cutrò. Non c’è male per un’Associazione che si proclama in prima fila sul fronte antimafia e ha un codice etico che prevede l’espulsione di chi paga il pizzo e non denuncia. La faccenda è finita anche in Parlamento con un’interrogazione presentata dall’Idv.

Ho chiesto ad Ignazio chi glielo fa fare a restare in Sicilia, a Bivona, visto che tutti lo hanno abbandonato. “Quello che mi sta succedendo, anche quest’ultimo, assurdo, episodio contro mia figlia, non mi porta ad andarmene, anzi. Se pensano che io scappi sbagliano di grosso. Questa è la mia terra, è casa mia. Io non mi faccio cacciare“.

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