Nel discorso di inaugurazione dell’anno giudiziario 2011 sia il primo presidente che il procuratore generale presso la Corte di Cassazione hanno lanciato un grido di allarme sulla lentezza dei processi, citando espressamente la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, i cui principi vengono sistematicamente violati dalla giustizia italiana. Analoga preoccupazione aveva espresso, l’anno passato, il presidente del Consiglio di Stato, Pasquale de Lise.

Essendo stato “prestato” dalla giustizia italiana alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per qualche mese (nell’ambito di un programma di scambio tra giudici europei), ho potuto constatare con mano quanto sia drammatica la situazione e quante decine e decine di migliaia di euro costi al nostro Paese l’inefficienza della giustizia. Più che dei problemi, quindi, credo sia ora necessario parlare delle soluzioni. Essendo attualmente un Giudice amministrativo, mi limiterò al mio “settore”, nel quale credo sia giusto fare innanzitutto un po’ di autocritica, da parte di noi magistrati.

Invero, proprio su questo blog avevo evidenziato, in passato, il numero preoccupante di magistrati amministrativi che svolgono un “doppio lavoro”. A volte, addirittura, un “triplo lavoro”. Incarichi di ogni sorta, spesso strapagati, della cui legittimità hanno dubitato, più di una volta, gli stessi membri dell’organo deputato ad autorizzarli.

Recentemente c’è stata addirittura un’interrogazione parlamentare avente ad oggetto gli incarichi extragiudiziari svolti… dagli stessi membri dell’organo di autogoverno della magistratura amministrativa (il Cpga)! Alcuni senatori hanno infatti chiesto di sapere se, assumendo l’impegno di svolgere copiose e ben pagate attività extra, i componenti del “Csm” dei giudici amministrativi abbiano almeno rinunciato allo sgravio del lavoro ordinario, che viene loro concesso per svolgere l’attività di autogoverno, e non, di certo, altre lucrose attività, ed hanno anche domandato se i fortunati beneficiari abbiano partecipato essi stessi alle sedute in cui si autorizzavano i loro incarichi.

Già questo, francamente, non mi sembra il migliore degli approcci al problema, da parte della giustizia amministrativa. Ma ciò che desta le mie più vive perplessità, oggi, è che, nonostante gli ottimi propositi enunciati dal nuovo presidente del Consiglio di Stato nel discorso inaugurale (da me stesso lodati), a distanza di sei mesi dall’insediamento del presidente de Lise la giustizia amministrativa sembra andare in una direzione nettamente opposta, rispetto a quella (dichiarata) di voler abbattere l’arretrato.

Infatti, l’organo di autogoverno ha recentemente ribadito che i magistrati amministrativi devono avere dei carichi di lavoro predeterminati (di fatto non possono superare le 12 sentenze al mese circa) e che i capi degli uffici giudiziari, ove violino tali regole, sono passibili di sanzioni disciplinari. Insomma, è vietato lavorare di più.

Però, al contempo, il CPGA continua ad autorizzare centinaia (sic!) di incarichi ogni anno, ai (solo) 500 magistrati circa che compongono la categoria. In questo, a mio avviso, vi è una forte contraddizione.

Nemmeno costituisce una reale soluzione al problema la recente previsione normativa (introdotta dal codice di procedura amministrativa) che disciplina la c.d. perenzione: se è trascorso un certo lasso di tempo ed il soggetto interessato, interpellato, non manifesta ancora interesse alla decisione, il ricorso finisce lì. In questo caso, infatti, si avrà si un fascicolo in meno, ma, certamente, non sarà stata data “giustizia”: in sostanza è come dire che, siccome non siamo stati capaci di decidere la causa in tempo (e si parla di anni…), tanto che non hai più interesse, non te la decidiamo proprio. Oltre al danno, la beffa.

Di fronte ai milioni e milioni di euro di danni provocati da questi ritardi e lentezze ci si deve chiedere, almeno, di chi sia la responsabilità.

Non del magistrato amministrativo, legittimato da una normativa interna. Non del capo dell’ufficio, che se viola le regole sui carichi di lavoro rischia addirittura sanzioni disciplinari. Non resterà, allora, che verificare la legittimità dell’operato del Cpga (che limita i carichi di lavoro ed al contempo autorizza centinaia di incarichi extra) per verificare se la responsabilità sia ascrivibile concretamente a qualcuno o se, invece, anche questo danno si perderà nei tanti meandri delle irresponsabilità delle amministrazioni italiane.

Di certo, la lentezza (evitabile?) della giustizia (anche amministrativa) costa ai noi contribuenti milioni di euro di danni, risarciti ogni anno dalle Corti di Appello o dal Giudice di Strasburgo. La parola alla Corte dei Conti. Forse.

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