E’ solo un sondaggio, per carità. Ma tanto basta per far serpeggiare la paura. Anche perché, ed è questo l’aspetto fondamentale, un’indagine di opinione non rappresenta una verità inequivocabile ma resta, al tempo stesso, una misura comunque significativa di concetti come “clima”, “sentimento” e “fiducia”. Tutti elementi che nei mercati, soprattutto nel medio e lungo periodo, fanno tipicamente la differenza. E proprio la mancanza di fiducia è il principale responso dell’ultimo sondaggio – il quarterly Global Poll – condotto per Bloomberg dalla statunitense Selzer & Co. su un campione di 1.000 soggetti tra investitori, analisti e trader chiamati a dire la loro sul futuro dell’Europa e della sua moneta. Entro il 2016, afferma il 53% di loro, Grecia e Irlanda saranno fallite.

La percentuale, già di per sé inquietante, sale quasi attorno a quota 75% nel caso della sola Grecia. Un segnale inequivocabile del fatto che – a prescindere da chi abbia ragione in ultima analisi – le rassicurazioni espresse da Atene convincono ormai solo una minoranza di osservatori. L’ipotesi che i bond ellenici possano essere “onorati” senza un concambio (per intenderci, il celebre canje de deuda con cui l’Argentina ha sostituito in questi anni le obbligazioni in default proponendo ai risparmiatori la fatidica domanda: preferisci recuperare poco oppure nulla?) perde sempre più terreno. E gli speculatori vanno a nozze. Il rendimento dei titoli greci a dieci anni viaggia attorno all’11,38% (gli omologhi tedeschi stanno sotto al 3), mentre il costo di assicurazione dei crediti vantati con Atene si colloca ormai a 885 punti base (885 mila dollari per assicurarne 10 milioni).

La buona notizia, se non altro, è che la maggioranza degli investitori non sembra credere all’ipotesi di un catastrofico effetto contagio nelle periferie continentali. La bancarotta 2016 del Portogallo è giudicata probabile da meno della metà degli intervistati (47%), quella della Spagna è esclusa dai 2/3 del campione. Al collasso dell’Italia, infine, non crede più del 25% degli interpellati. Una curiosità: secondo l’ultima rilevazione di Cma, insieme a Markit il principale monitor globale sui derivati scambiati over the counter, la probabilità che l’Italia fallisca nei prossimi cinque anni è superiore al 19% (Grecia e Venezuela varcano entrambe la soglia del 50%).

L’esito del sondaggio, con ogni probabilità, non sarà sfuggito ai beneficiari delle prestigiose borse regalo griffate World Economic Forum che sfilano in questi giorni nella fredda Davos. Nella sessione inaugurale, il “guru della crisi” e docente della NY University Nouriel Roubini non ha usato eufemismi spiegando ai circa 2.500 presenti, tra cui gli indiscussi leader di eurolandia Angela Merkel e Nicolas Sarkozy nonché il presidente della Bce Jean-Claude Trichet, come gli attuali avvenimenti che caratterizzano i tormenti della moneta unica rappresentino ormai “uno dei principali rischi per l’economia mondiale”.

Nulla di nuovo sotto il sole, dunque. Ma certe cose, si sa, è meglio ripeterle a scanso di dubbi. Soprattutto se il relatore in questione è uno dei pochi a potersi vantare di aver previsto a suo tempo e con largo anticipo il collasso della prima tessera del domino: i subprime americani. Lo sanno bene gli stessi operatori sentiti da Selzer che, sulla moneta unica, hanno espresso giudizi chiari. La metà di loro ipotizza un ulteriore rafforzamento del dollaro rispetto alla valuta continentale nei prossimi tre mesi (a novembre, segnala Bloomberg, ci credeva soltanto il 33% degli intervistati) mentre il 59% si dice convinto che almeno un euro-membro sarà costretto ad abbandonare l’unione monetaria da qui a cinque anni. Fatti i conti, forse, potrebbe essere l’unica strada verso la salvezza. Di tutti quanti.

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