Grazie alle campagne di informazione scatenate dalle organizzazioni di difesa dei lavoratori, ormai tutti sanno o dovrebbero sapere che il 23.11.2010 è entrata in vigore la legge 183/2010, il così detto collegato lavoro. Come tutte le realtà sindacali e politiche della sinistra, anche il Punto San Precario ha giocato sul concetto di “countdown”, indicando il 23 gennaio come l’ultima data disponibile, il giorno del non ritorno (video 1 – animal, video 2 – blues, video 3 – piovono padroni), ma lo ha fatto in modo sarcastico, con l’intenzione di spiegare e denunciare, in un momento di forte attenzione, le origini e le vere responsabilità di cotanto orrore legislativo (cari precari e care precarie, mai più disposti a tutto, la coerenza del sindacato).

Il collegato lavoro è una porcata, ma una porcata che non muta qualitativamente il quadro sociale, culturale ed economico della precarietà nel quale l’agenzia di conflitto San Precario ha imparato a muoversi con una certa dimestichezza. In moltissimi ci hanno contattato, altri hanno contattato i sindacati di base o quelli confederali. Per quanto nella sola Milano le impugnazioni siano state migliaia e migliaia, si parla sempre di una goccia nel mare. Il numero dei precari che avrebbe potuto impugnare l’irregolarità dell’utilizzo dei contratti atipici stipulati negli ultimi anni è altissimo: centinaia di migliaia; milioni, forse.

Ma così non è stato, e chi naviga nelle acque tempestose della precarizzazione conosce bene il perché. La precarietà è isolamento e disinformazione, ma soprattutto è ricatto e consenso. Chi la subisce non cambia il proprio atteggiamento perché in televisione hanno detto che rimangono sessanta giorni per impugnare un contratto irregolare. I precari hanno paura, sono ricattati, qualche volta credono ai loro sfruttatori, al clima familiare dell’ufficio, del laboratorio, dell’officina; credono al “tu”, alla pacca sulle spalle, alla logica della stessa barca. Chi ha avuto paura fino a ieri ce l’avrà anche oggi, chi si illude che stando zitti e ligi un domani si verrà ricompensati continuerà a non fare nulla. Questa società rimarrà nel proprio stato di quiete (magari con delle vampate di rabbia improvvise) finché non entrerà in campo una forza capace di dare un’accelerazione. E questa forza per i precari/ie non può essere un countdown (a cui tra l’altro in molti sono abituati per ragioni contrattuali).

Qual è allora questa forza? La fortuna di San Precario non risiede nella sua simpatia, nella sua capacità comunicativa o in quella di aver un ottimo supporto legale (tutte cose peraltro importanti). Il successo del Punto San Precario è dovuto al fatto che alcuni precari e precarie hanno cercato di rispondere insieme alle domande che li/le assillavano: come possiamo ribellarci se siamo sotto ricatto? Come possiamo prendere la parola se non siamo rappresentati? Come possiamo protestare se non ci rinnovano i contratti?

La storia ci insegna che il rapporto fra i potenti e i più deboli è come una fisarmonica, a volte si allarga e altre si stringe. Alcune volte il capitale riesce a dividere, prevalere e a guadagnare. Altrettante volte gli sfruttati hanno ripreso in mano il proprio destino, organizzandosi con forme nuove ed efficaci, per riappropriarsi di reddito e diritti.

Agli Stati generali della Precarietà 2.0 si è discusso a lungo di conflitto nella precarietà. E la conclusione è netta; chi dice che non è possibile sviluppare un conflitto efficace contro le aziende perché troppo forti o troppo sfuggenti sa di mentire, e lo fa per due ragioni: perché ha un interesse affinché le cose rimangano così, o perché non è capace di interpretare un vero mutamento e quindi difende la propria soggettività, politica o personale che sia.

L’esperienza del Punto San Precario a Milano lo dimostra. Se dei precari/ie come noi, senza tempo né risorse, con un unico santo in paradiso (auto prodotto) sono riusciti bene o male a riprendere le fila del conflitto negli aeroporti, nelle cooperative, nei call center, nel mondo moda, in fiera eccetera, proviamo a immaginare cosa avrebbero potuto fare situazioni ben più organizzate, se solo avessero voluto. Ma così non è stato. E ci è toccato far da soli. L’importante è avere consapevolezza della propria forza e far sì che le diverse esperienze entrino in relazione.

Ben presto alle domande a cui abbiamo accennato sopra se ne sono aggiunte altre, complementari, che andavo oltre i meccanismi di autotutela e che chiedevano risposte più articolate. Ad esempio come si crea il profitto di un’azienda e come si può danneggiare questo profitto. Ed eccoci al dunque. Per creare conflitto nella precarietà bisogna porsi due questioni complementari: come tutelare l’azione dei lavoratori ricattati e come sabotare il profitto?

A tutti coloro che hanno intenzione di ragionare sulle nuove forme di conflitto, dei meccanismi con cui interferire col profitto noi proponiamo di incontrarci e confrontarci, poiché uno sciopero precario ha senso solo se parallelamente avviene un radicamento nel “mondo precario” (costituito dai lavori, dai territori, dai flussi che li attraversano, dall’apparato simbolico che valorizza le merci devalorizzando noi). L’ultimo spot di San Precario (video 4 – alba precaria) è il più visionario (ma non allucinato) e parla del nostro futuro.

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