Ovvero come  il noto concetto partenopeo sia stato tradotto dalla Corte Suprema di Londra con pari incisività, ma con maggiore eleganza.

Il mese scorso, l’ex parlamentare laburista David Chaytor si era dichiarato colpevole davanti al tribunale che l’avrebbe giudicato: una mossa dettata dalla consapevolezza che l’accusa di truffa nelle richieste di rimborso spese al Parlamento poteva sfociare in una condanna fino a sette anni. E infatti, come previsto, l’ammissione di colpa ha fruttato un generoso sconto all’imputato, che se la caverà con soli 18 mesi di carcere.

La sentenza di condanna, risalente a pochi giorni fa, avrebbe tuttavia potuto essere pronunciata già molti mesi prima, se Chaytor e alcuni suoi colleghi, ispirati forse dalle gloriose lotte condotte Oltremanica, sul Continente, per l’indipendenza dei parlamenti e la serenità dei governanti, non avessero deciso di vendere cara la pelle, combattendo per più di un anno per sostenere il loro diritto a non subire un processo nei tribunali ordinari, e a venire invece giudicati dalle rispettive Camere di appartenenza, in quanto  protetti dal “parliamentary privilege”.

Già due gradi di giudizio avevano respinto l’ipotesi che un reato comune, del tipo in esame, potesse venir giudicato dal Parlamento e non in tribunale. Tuttavia la Corte d’Appello, riconoscendo che era stato sollevato un punto di diritto di interesse generale, aveva dato l’autorizzazione a richiedere un’interpretazione alla Corte Suprema in forma di risposta alla seguente domanda: “Può il tribunale ordinario sottoporre a processo un parlamentare in relazione ad accuse riguardanti richieste disoneste di rimborso spese relative alla sua funzione, oppure il tribunale non ha giurisdizione in forza dell’articolo 9 del Bill of Rights del 1688 e/o in forza della giurisdizione esclusiva del Parlamento?

La Corte Suprema, nonostante gli sforzi degli avvocati di Chaytor e compagni, volti a dimostrare il contrario, ha risposto di sì, che può. Poi, a tempo debito, il 1 dicembre scorso, ha reso note le sue motivazioni, concedendosi qualche frecciatina e alcuni sapidi commenti alle tesi della difesa, che paventavano oscure minacce alle funzioni essenziali del Parlamento, nel caso un tribunale ordinario avesse dovuto prendere in esame le richieste di rimborso spese dei parlamentari.

La Corte ha considerato innanzitutto i limiti dell’immunità prevista dal Bill of Rights (Art. 9: “La libertà di parola e di discussione o le attività del Parlamento non possono formare l’oggetto di accuse o contestazioni in nessun altro luogo o tribunale fuori dal Parlamento”) e, siccome essi dipendono dall’interpretazione da dare all’espressione “proceedings in Parlyament” (attività del Parlamento), ha affrontato il problema di chi sia legittimato a decidere quali siano i comportamenti così definibili, concludendo che la decisione va affidata ai tribunali e non alle Camere. Anche se i tribunali, in casi di questa natura, pongono riguardo e attenzione al parere del Parlamento.

Infine, dopo la citazione e il commento della giurisprudenza relativa all’articolo 9 e all’immunità prevista dalla “exclusive cognisance” (giurisdizione esclusiva) del Parlamento, la Corte  ha concluso che il principio difeso è quello di garantire la libertà di espressione in Parlamento e nelle commissioni parlamentari, sotto forma di discorsi e dibattiti, e che questo va ritenuto il modo e il luogo in cui si esplica la funzione essenziale del Parlamento. Per fare quindi ricadere nell’ambito dei “parliamentary proceedings” anche atti compiuti al di fuori del Parlamento, ma che ad essi si possono collegare, è necessario considerare la natura di questa connessione, e prevedere il loro probabile impatto negativo sullo svolgimento delle funzioni essenziali del Parlamento.

“Adottando questo approccio – ha spiegato la Corte Suprema – la presentazione dei documenti per la richiesta di rimborso spese non si qualifica come atto protetto da immunità. L’esame delle note spese da parte di tribunali ordinari, esterni al Parlamento, non potrà avere nessun impatto negativo sullo svolgimento delle funzioni essenziali del Parlamento”.

“Certamente l’indagine del tribunale ordinario non inibirà nessuna delle varie attività dei membri del Parlamento relative, in un modo o nell’altro, all’espletamento dei loro doveri di parlamentari. L’unica cosa che inibirà – ha concluso la Corte Suprema con crudele e britannico sense of humour – è la presentazione di note spese disoneste“.

Anche la nostra Corte Costituzionale, proprio in questi giorni, si trova a valutare che cosa rischierebbe di inibire la bocciatura di una leggina sul legittimo impedimento a comparire in tribunale, pensata per garantire “il sereno svolgimento” delle attivita’ di governo.

Nel caso in questione, da italiani, ci si augurerebbe una risposta altrettanto realistica, dignitosa e spiritosa.

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