Se un’intera generazione si schiaccia sul presente e non produce visione del futuro, si mantengono e giungono ai posti di comando i mediocri. Questi sanno circondarsi di fedeltà acritica e garantire ricompense alla piaggeria che li encomia. In fondo, la continuità e la propensione all’esclusione sono quanto gli studenti rinfacciano senza sconti agli attuali gruppi dirigenti. Elite appiattite su un pensiero unico, che si riproducono da trent’anni e vorrebbero oggi rivestirsi di modernità al prezzo della demolizione del dissenso e dell’abolizione del conflitto. Una “modernità” che ha dato pessima prova nella crisi in corso e che si vorrebbe rilanciare sulla pelle dei giovani, del lavoro e delle classi popolari.

Allora, non deve far specie che a un Cavaliere (Berlusconi), che usa le cariche pubbliche per coprire i suoi affari personali e per assicurarsi impunità, venga data sponda da due Cardinali (Bagnasco e Bertone), che in cene poco evangeliche benedicono un governo agli antipodi della testimonianza cristiana. E nemmeno che un imbolsito predicatore della superiorità del Nord (Bossi) sguazzi nella “palude romana” e da lì approvi l’abbattimento della dignità del lavoro operaio nostrano a livelli da terzo mondo, così come lo impone un manager (Marchionne), rappresentante di un capitalismo anonimo che scorrazza spietato per il mondo.

La stampa e i media nazionali sembrano attratti dagli atteggiamenti muscolari e dall’arroganza di queste classi dirigenti, anche quando non sono palesemente all’altezza dei compiti. Ne celebrano i fasti sotto la luce inverosimile dell’innovazione anche quando si tratta di un ritorno deprimente a 50 anni addietro. Naturalmente i comprimari si sprecano: ministri bacchettoni, economisti promotori e difensori delle ricette più fallimentari, sindacati ormai privi di autonomia e perfino politici “di sinistra”. Sono tutti incredibilmente loquaci e alla rincorsa, alla loro non più giovane età, di una restaurazione classista, dopo aver combattuto invano per quarant’anni allo smantellamento delle “casematte” del ’68. Già, trovare un giornalista che andasse a chiedere, ad esempio, cosa pensano di Mirafiori e Pomigliano gli studenti del movimento sceso in piazza in questi giorni! Pareri certo meno scontati dei ritriti Gelmini o Giavazzi, Pansa o Ichino, Manghi o Fassino…

Sulla scorta della mia esperienza sindacale parto dal “picconatore” Marchionne, plenipotenziario in Fiat, per smontare la tesi di un suo ruolo “riformatore”. I maggiori quotidiani nazionali sostengono che la globalizzazione implichi lo scambio inevitabile tra diritti e occupazione. Lo sosterrebbero mai Bill Gates o Steve Jobs o, perfino, Martin Winterkorn, presidente di Volkswagen? Perché, allora, accettare da un uomo della finanza internazionale, abituato a giocare con soldi non suoi, il luogo comune classista per cui sicurezza, condizioni di lavoro, dignità e salario non sono prerequisiti per far funzionare una linea di produzione, come possono dimostrare molti altri casi? Perché accettare che il declino storico del ciclo auto individualepetrolio dia spunto solo in Italia per una regressione di tutto il mondo del lavoro, quando negli altri paesi dove si ristruttura o rilocalizza (Germania, Brasile, Serbia o Cina) si mantengono o addirittura migliorano le condizioni locali dei salariati nel settore? E che dire della panzana per cui, per risanare l’impresa in cui lavorano, sarebbero i sindacati americani, “comproprietari” della Chrysler a pretendere il livellamento delle fabbriche italiane alle normative statunitensi, quando, per lo stesso fine, non si sono mai posti il problema di arretrare loro per primi al dislivello degli stabilimenti di Brasile e Polonia? La realtà è che per gli inossidabili sostenitori del manager italo-canadese la globalizzazione funge da copertura per una negazione di autonomia della vita sociale anche nei luoghi e nei momenti in cui più acute si presentano le contraddizioni di questo sistema. In fondo molti hanno accostato Mirafiori e la legge Gelmini solo per esorcizzare una presa di contatto fra due realtà – lavoro e studio – che impongono di ridiscutere il futuro rivendicando insieme un potere democraticamente legittimato.

Si smetta con questa ricerca dell’ineluttabilità della ricetta avanzata e si ammetta che per Fabbrica Italia non si tratta di una proposta industriale, ma di un ricatto cui piegare tutto il sistema. Si riconosca che non c’è piano d’impresa, ma solo la volontà di imporre un metodo, sovvertendo radicalmente i rapporti di potere tradotti fin qui dalle leggi e dai contratti in vigore. Si cerchi di capire perché, alla luce di quanto sta accadendo, gli operai e il sindacato tedeschi hanno chiuso la porta di Opel in faccia a Marchionne.

Ha ben ragione la Fiom a cogliere nel referendum che si terrà a Torino un ricatto inaccettabile che, se fosse legittimato come espressione di democrazia, sancirebbe davvero che la nostra Costituzione non può varcare i cancelli delle fabbriche. Infine, perché non è mai stato preso in considerazione l’esito di un referendum che ho vissuto direttamente nella mia esperienza sindacale all’Alfa di Arese? In quell’occasione, gli operai avevano votato all’unanimità per riconvertire lo stabilimento auto a prodotti per la mobilità sostenibile e la Fiat invece aveva fatto deserto su due milioni di metri quadrati (si veda la testimonianza del video), dove dal 2011 sorgeranno villette e supermercati.

Francamente non capisco perché, in una fase così facilmente leggibile, la Cgil si perda sui giornali in una irritante polemica sul massimalismo di una sua componente o sull’estremismo di Marchionne. Come se il disegno in atto sparisse d’incanto e ci fosse una terza via che dipende tutta dalla maggiore o minore ragionevolezza dei rispettivi leader (Camusso o Landini, Marcegaglia o Marchionne). Credo che anche a livello sindacale il problema non sia per niente quello di isolare i metalmeccanici della Cgil, ma di riconquistare attorno ad essi l’intero mondo del lavoro, portato alla spaccatura dai comportamenti di Cisl e Uil. Dobbiamo convincerci che la trasformazione che si cerca di imporre partendo da Pomigliano e Mirafiori ha a che fare con la distribuzione del potere e con i conseguenti diritti democratici in fabbrica. Che il piano strategico d’impresa e un patto sociale includente sono la posta da perseguire nella discussione e nel conflitto in corso. Altro che la vista a breve di Marchionne! Ma su questo ritornerò in un prossimo post.

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