Gli Stati si impegnano ad assicurare al fanciullo la protezione e le cure necessarie al suo benessere (Convenzione sui diritti dell’infanzia)
La maternità e l’infanzia hanno diritto a speciali cure ed assistenza. (Articolo 25 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani)

Li vidi sul greto del fiume. Pescavano.
Erano bambini dolcissimi. Malgrado tutto.
Li raggiunsi.
Erano un maschio e una femmina: Alin e Mari. Lui avrà avuto dieci anni e lei otto.
Erano seduti su due sassi. Alin reggeva tra le mani una canna da pesca. Mari gli stava accanto.
Erano fermi, immobili. Davanti a loro il fiume e sulla riva opposta i palazzoni di un quartiere popolare.

Li salutai e sedetti vicino.
Ero di lato e riuscivo a vederli solo di profilo. Pelle e capelli scuri. Bellissimi, come lo sono tutti i bambini di tutte le razze.

“E’ molto che hai imparato a pescare?” Chiesi ad Alin.
“No, è poco. Da quando sono qui.”
“E la canna di chi è?”
“L’ho trovata. Un giorno c’era un signore che stava pescando qui vicino e a un certo punto si è arrabbiato. Ha preso la canna e l’ha buttata via. Per fortuna non nell’acqua. Tanto ne aveva altre e ha continuato a pescare con quelle. Io lo guardavo da lontano e lui non mi ha visto. Quando se n’è andato gli ho preso la canna che aveva buttato. Adesso ci pesco io.”
“E ne prendi di pesci?”
“Si, ogni tanto. Papà è più bravo.”
“E tu non peschi?” Provai a rivolgermi alla piccola Mari.
“No.”
“Però ti piace stare qui con Alin?”
“Si.”
La vedevo ripararsi continuamente gli occhi con le mani e così le chiesi se le desse fastidio il sole. Fu Alin a rispondere per lei: “Ha una malattia agli occhi e quando c’è il sole vede poco.”

Restammo in silenzio a fissare lo scorrere del fiume.

Fu Alin il primo a parlare.
“Anche tu abiti in questa città?”
”No, sono di Genova.”
“La città del Genoa e della Sampdoria?”
“Si,” risi “proprio quella. Le hai mai viste giocare?”
“No. Ma so che ci sono.”
Alin tirò a secco la lenza e prendendo l’amo tra le dita sorrise.
“Se l’è mangiata.”
“Cosa gli dai?”
“Non lo so. E’ una roba rossa che prepara papà.”
“E i pesci che peschi li mangi?”
“Si, li prepara la mamma.”
“E li cucina bene?”
Questa volta fu Mari a rubare il tempo al fratello: “Si, cucina bene. Ma adesso dobbiamo andare. Dobbiamo fare i compiti. Su, Alin andiamo nella nostra villa.”
“Nella vostra villa?” Domandai stupito.
“Si, nella nostra villa. Anche se in questi giorni c’è un po’ tanto rumore. Abbiamo i muratori in casa. Guarda, ce la stanno aggiustando.” E indicò qualcosa alle mie spalle. Mi voltai. Vidi un ponte e sopra degli operai del Comune che stavano rifacendo il manto stradale. Sotto quel ponte e vicino all’acqua mi parve di intravedere come un materasso, un paio di sedie e del fumo proveniente da un fuoco.
“Su, andiamo, Alin.”
“Sì, andiamo Mari.”

Alin e Mari vivevano sotto un ponte e pochi mesi prima avevano visto morire, in un incendio divampato sotto un altro ponte, il loro cuginetto Mangji. A distanza di mesi da quella morte, nulla era cambiato nelle vite di quei due bambini se non il numero dei cugini ancora in vita.
Questo episodio, che ho voluto inserire nel mio spettacolo Non chiamarmi zingaro, accadde pochi anni fa in una tranquilla città italiana.

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