di Guido Mula*

Nelle parole della maggioranza e in particolare del ministro Gelmini, ci sono tanti slogan, tante parole chiave che però risultano prive di concretezza quando si va a guardare nel concreto il disegno di legge che vogliono approvare in tutta fretta. Dal tetto della facoltà di architettura di Roma, il tetto del dialogo lanciato dai ricercatori della Rete29Aprile, parte un’idea: discutiamo delle parole chiave del ministro, dimostriamo a tutti come dietro a queste parole non ci sia nulla (quando va bene) o ci siano provvedimenti che addirittura vanno in direzione opposta. Ci saranno in questi giorni una piccola serie di presentazioni nelle quali si parlerà di temi cari al Ministro nel difendere la sua legge. Nel tetto si dimostrerà che le parole del Ministro non trovano riscontro nel testo della legge e che anzi si trovano norme che provocano il contrario, e in questo blog riprenderemo quei temi.

Il primo tema è: largo ai giovani.
La prima considerazione che viene da fare è per il diritto allo studio: un diritto massacrato dai tagli e dalla trasformazione di una elevata percentuale delle borse di studio per i meritevoli in prestiti d’onore. Già oggi, nella difficile situazione economica che attraversiamo, la percentuale di borse non pagate ad aventi diritto è decisamente troppo elevata, e con i tagli non si potrà che peggiorare. Tagliare i fondi vuol dire però non permettere a chi non ha mezzi economici sufficienti uno studio universitario, trasformando il diritto di tutti alla cultura in un diritto per pochi. L’effetto combinato del ddl e delle manovre finanziarie in corso produrrà un effetto altamente deleterio per chiunque in Italia, obbligando i giovani senza famiglie sufficientemente benestanti a rinunciare agli studi universitari, con un conseguente impoverimento culturale ed economico per tutti.

Per quanto riguarda il post-laurea, il ministro, nel vantare il disegno di legge, racconta che grazie a lei sarà possibile avere all’università giovani professori in breve tempo dopo la laurea: vediamo se è vero. Leggendo il testo del disegno di legge approvato alla Camera, all’articolo 22 si parladi assegni di ricerca, ovvero contratti precari di ricerca senza prospettiva. Questi contratti esistevano anche prima, ma il ministro ha scelto di non eliminarli e di aggiungere invece una nuova figura precaria che vedremo nel paragrafo successivo. Questi assegni avranno una durata massima di quattro anni, sette se coprono anche il dottorato. Dato che gli assegni sono contratti molto convenienti per chi assume, ci possiamo forse aspettare che tutti eviteranno con cura di assumere massicciamente queste figure oppure avremo la certezza che faranno il contrario? Un/una giovane neolaureato/a brillante, diciamo di 24 anni, arriverebbe quindi con dottorato e assegno di ricerca ai 31 anni.

A questa figura se ne aggiunge un’altra a scadenza: quella del ricercatore a tempo determinato. Nelle parole del ministro si tratta qui di una tenure track, anglicismo utilizzato per darsi un tono ma utilizzato completamente a sproposito. Negli Stati Uniti, dove la tenure track è una cosa normale, le università prevedono nella programmazione pluriennale dei loro bilanci i soldi per le assunzioni delle persone che entrano nel percorso della tenure track. Le università non possono, alla fine del percorso, non assumere le persone che hanno svolto con merito e competenza il proprio lavoro negli anni della tenure track. C’è un contratto di impegno reciproco: se io lavoro bene tu mi assumerai.

Ma ecco che, leggendo il testo di legge, si scopre una cosa curiosa: le università non sono obbligate a prevedere i soldi per le assunzioni dei ricercatori a tempo determinato. Durante la discussione nella commissione Cultura della Camera, a seguito delle forti pressioni esercitate da molte parti, questa incongruenza era stata eliminata. Tuttavia, ad una settimana dalla discussione in aula alla Camera si è tornati alla dicitura “nei limiti delle disponibilità di bilancio”. Se quindi un giovane meritevole fa bene il proprio lavoro, alla fine dei sei anni (o anche otto, secondo la configurazione del contratto) non avrà alcuna certezza.

In sostanza, dopo il precariato come assegnista, il nostro giovane brillante può fare fino ad altri otto anni senza avere certezze. Un totale di dodici anni di precariato (limite fissato nel ddl per assegno + ricercatore a tempo determinato), come gavetta non c’è male. Dottorato + 4 anni di assegno di ricerca + 6-8 anni da ricercatore a tempo determinato, ecco che il giovane brillante passa dai 24 anni della laurea ai 37-39 anni alla fine di un percorso senza certezze, alla faccia del “largo ai giovani”.

Ma insomma, direte voi, se è brillante davvero il/la giovane dell’esempio otterrà l’idoneità nazionale prima di quell’età e sarà assunto/a come professore. Certo, sarebbe vero se ci fossero soldi per una programmazione dei posti nelle università. Ma nel disegno di legge e nelle leggi finanziarie, compresa quella in discussione, non c’è traccia di nulla che preveda o permetta una copertura finanziaria adeguata e una programmazione vera dei fondi per le università e la ricerca, anzi, è previsto che le università si ritrovino in braghe di tela, senza neanche la copertura degli stipendi. Quindi, per il nostro giovane brillante, non ci sarà nulla di certo, oltre al precariato. Non per tutti, forse, ma per la stragrande maggioranza sì.
Non va poi dimenticato che a questi anni di precariato è possibile aggiungerne (art. 23) fino ad altri cinque con contratti annuali di insegnamento, se proprio si volesse andare a guardare tutto…

Proviamo adesso a fare un conto più semplice, non contiamo gli assegni di ricerca. Il nostro giovane brillante, laureato a 24 anni, si farà almeno il triennio di dottorato, indispensabile per entrare all’università. Attualmente, dopo il dottorato, il giovane brillante potrebbe direttamente concorrere al posto di ricercatore, o fare un breve periodo di ricerca all’estero di un paio d’anni e poi tentare il concorso. Dopo questa legge, in entrambi i casi, prima di tentare il concorso si dovrà sobbarcare di sei anni aggiuntivi di precariato, senza certezze di assunzione quali che siano l’impegno profuso e i risultati raggiunti.

Non c’è nulla da fare: da qualunque parte si guardi il problema, il periodo di precariato modello Gelmini è di (almeno) sei anni più lungo di prima.

I ricercatori non chiedono di abolire il precariato, ma questo deve essere di breve durata. Due-tre anni di contratto di ricerca post-dottorato in Italia o (meglio) all’estero sono normali e perfino salutari. A seguire però ci deve essere una vera tenure track, se serve anche con valutazioni intermedie, per la quale deve essere chiaro che alla fine, se si è lavorato come si deve, si verrà assunti. Se questo processo avviene in un contesto di responsabilizzazione (torneremo su questa parola nel contesto del disegno di legge) e valutazione seria non ci potrà che essere un processo virtuoso di assunzioni di persone valide e capaci.

Ma, forse, il problema del ministro Gelmini è che confida nell’allungarsi della vita, e sul fatto che alla soglia dei 40 anni si è ancora “giovani”. Nel resto del mondo scienziati di quell’età sono assunti da tempo, da noi no. Ci sono premi Nobel sotto i 40 anni, ma da noi si resta precari. Ci dovrebbe spiegare, il ministro, in quali condizioni i giovani di meno di 40 anni dovrebbero costruirsi una famiglia, garantirle un tetto, avere dei figli, nutrirli ed educarli, o semplicemente programmarsi una vecchiaia serena. Il precariato non aiuta la produttività, ma solo lo stress di chi vive sempre non sapendo se domani avrà i soldi per arrivare a fine mese.

*Rete29Aprile

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