Il problema per Silvio Berlusconi non è quello che la diplomazia americana pensa di lui. E non rappresenta nemmeno un ostacolo insormontabile il sospetto, avanzato dalla Georgia e fatto proprio da Washington, che tra il premier e “l’amico Putin” esista un patto per spartire presunte tangenti sul commercio di gas. Le recenti e obbligate dichiarazioni di amicizia di Hillary Clinton e l’assenza di prove certe che corroborino le gravi accuse di corruzione internazionale, bastano al momento per dare al presidente del Consiglio qualche speranza di sopravvivere politicamente a questa parte del caso WikiLeaks.

Durissime nell’immediato, minacciano invece di essere le conseguenze di un altro spezzone dei cablogrammi dell’ambasciata americana a Roma. Quella in cui l’ambasciatore Ronald Spogli, prima, e l’ambasciatore David Thorn, poi, raccontano ciò che è stato loro riferito dagli amici e gli alleati di Berlusconi: il sottosegretario Gianni Letta, il presidente della commissione difesa del senato, Giampiero Cantoni e il ministro per il Federalismo, Umberto Bossi. Tre importanti esponenti politici del centrodestra a cui, è facile prevederlo, si aggiungeranno presto altri nomi.

La pubblicazione della straordinaria documentazione di Wikileaks è infatti appena cominciata. E di certo durerà a lungo. Forse più dell’attuale governo italiano.

È ovvio che i dispacci inviati a Washington riportino fedelmente quanto detto da coloro i quali frequentavano la sede diplomatica di via Veneto. Le smentite dei diretti interessati sono di rito e lasciano il tempo che trovano. Dalla lettura delle carte emerge così prepotentemente il vero problema di Berlusconi (e degli italiani). Da più di un anno e mezzo, nemmeno chi gli sta accanto si fida più del premier.

Qualcuno, come il ministro degli Esteri Franco Frattini va in giro a dire di non condividere la sua politica nei confronti di Putin, ma di essere costretto a eseguire “gli ordini” ricevuti. Altri, come Letta, spiegano che “è fisicamente debole”. Aggiungono che fa troppe feste (Cantoni) o lo descrivono come un paranoico ossessionato da complotti organizzati dai servizi segreti, dalla magistratura e addirittura dal presidente della Repubblica.

Niente di sorprendente per chi, come i giornalisti di questa testata, ha riportato e analizzato le cronache politiche e giudiziarie degli ultimi 14 mesi. Berlusconi, per chi lo vuol vedere, un pregio ce l’ha: per molti versi è trasparente.

Qualcosa di clamoroso, invece, se si pensa a chi sono le fonti dei diplomatici Usa: gli uomini più vicini al premier. I parlamentari che adesso dovrebbero continuare a tentare di sostenere il suo governo, pur sapendo (e sopratutto dicendo in privato) come stanno le cose.

Per questo, in attesa del voto di fiducia del 14 dicembre, il problema di Berlusconi (e del Paese) non è quello che pensano gli americani, ma quello che gli amici e gli ex dipendenti del presidente del Consiglio, pensano di lui.

È ovvio (o lo dovrebbe essere) che non può restare alla testa del nostro esecutivo chi si trova in simili condizioni mentali e di salute. È ovvio (o lo dovrebbe essere) che non può ottenere pubblicamente la fiducia chi non la ottiene in privato.

Se le cose stanno come raccontato dai suoi fedelissimi, l’obiezione secondo cui chi è stato votato dalla maggioranza degli italiani ha il diritto-dovere di governare, non ha più più senso. E anzi i parlamentari che sostengono di rappresentare il popolo, e stanno accanto al premier, hanno il dovere (se non sono semplicemente figuranti a libro paga) di dirgli di farsi da parte.

Accadrà tutto questo? Ne dubitiamo. O almeno dubitiamo che se ciò avverrà sarà per qualche tipo di remora morale da parte della corte di Berlusconi. Più facile, anzi quasi scontato, che nelle prossime settimane si assista, con il moltiplicarsi delle rivelazioni e l’acuirsi della crisi economica, a una fuga sempre più evidente e di massa dalle fila del Pdl.

Una fuga non di uomini, ma di topi. Gente che per anni si è ingrassata ingozzandosi con il formaggio del Potere. E che ora freme, pronta a mettersi alla ricerca di una nuova e più invitante caciotta.

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