Giuseppe Mussari, presidente dell'Associazione italiana bancari

Dopo i metalmeccanici, la prova del contratto è arrivata anche per i bancari e si preannuncia piuttosto infuocata. Del resto le prime avvisaglie erano già arrivate durante tutto il 2010 sotto forma di deroghe “eccezionali” sparse qua e là all’interno di accordi che hanno visto coinvolti i principali istituti di credito, Intesa SanPaolo e Unicredit, con l’avallo di buona parte delle sigle sindacali.

La Confindustria delle banche

E ora che si sta per aprire la negoziazione per il rinnovo del contratto, la Confindustria delle banche, l’Abi, ha giocato d’anticipo alzando la posta con l’annuncio ai sindacati dello scioglimento unilaterale del Fondo di solidarietà, l’ammortizzatore dei bancari autofinanziato da istituti e dipendenti. Una mossa che potrebbe riguardare tutta la collettività dato che, se dovesse realmente concretizzarsi, sposterebbe sui contribuenti il peso di eventuali nuovi esuberi di un settore che, proprio in questi giorni, si è invece presentato al tavolo della Confindustria con l’atteggiamento volenteroso di chi è intenzionato a contribuire al benessere della collettività attraverso la ricerca di una soluzione condivisa per il salvataggio delle piccole e medie imprese ancora incagliate nella crisi. La motivazione lasciata trapelare è che la gestione del Fondo che dal 2000 a oggi ha garantito il prepensionamento a circa 30mila lavoratori del settore, è diventata troppo onerosa e non più adeguata alle necessità del sistema. Sull’onerosità pesa il recente annullamento dello sconto del 50% sulle tasse che gravano sugli assegni di prepensionamento. Molto più economico, invece, cercare di ottenere la cassa integrazione, obiettivo non nascosto dell’Associazione guidata da Giuseppe Mussari. Meno chiare le motivazioni dietro al concetto di inadeguatezza, a meno che non si riferisca al fatto che allo stato attuale i prepensionamenti all’interno della popolazione bancaria potrebbero essere sempre più difficili, visto l’abbassamento dell’età media dei lavoratori. Numeri alla mano, infatti, secondo i dati raccolti dalla Fabi, soltanto negli ultimi tre anni, cioè dall’epoca delle grandi fusioni che avrebbero dovuto migliorare la competitività del sistema, le principali banche italiane hanno pensionato e prepensionato oltre 27mila persone. Più dell’equivalente dei dipendenti che la Fiat contava nel 2009 mettendo insieme gli stabilimenti di Termini Imerese, Mirafiori, Pomigliano, Melfi e Cassino. E su un totale di occupati attuali di circa 340mila persone secondo i dati dell’Abi, che a sua volta nei giorni scorsi ha annunciato una sessantina di esuberi, il 13% circa dei suoi dipendenti.

16mila dipendenti tagliati

Nel dettaglio, i tagli nelle due superbanche per definizione, Intesa e Unicredit, si aggirano complessivamente intorno ai 16mila dipendenti. Record assoluto quello dell’istituto fino a una manciata di settimane fa guidato da Alessandro Profumo, che dal 2007 a oggi ne ha mandati a casa 9.800, cui vanno aggiunti i 3mila programmati per il prossimo triennio, non senza qualche deroga al contratto nazionale, come denunciato da una piccola parte dei sindacati che si sono chiamati fuori dal coro che ha benedetto l’accordo di ottobre. Seguono Intesa a quota 6.231, Mps con 3.500 uscite alcune ancora in corso, Bnl con 2.600, Ubi con 2.225 e il Banco Popolare con 1.117 cui da gennaio dovrebbero aggiungersi altre 500 teste. È con queste premesse che gli istituti si sono presentati venerdì al tavolo per la riforma del Fondo e martedì dovrebbero presentarsi a quello del rinnovo del contratto. E con un’ambizione: comprimere ancora i costi, anche perché sul fronte della redditività, complice l’andamento dei tassi che sta riducendo a un lumicino i margini delle banche, come hanno evidenziato le ultime trimestrali e come sottolineato dal Fatto il 13 novembre scorso, le cose non sembrano girare molto bene.

E le famiglie sono indebitate
Intanto le famiglie italiane sono sempre più a rischio sovraindebitamento, come recentemente sottolineato da Bankitalia a fronte di debiti saliti del 20,8 per cento tra luglio 2009 e luglio 2010, mentre i grandi clienti, come i piccoli, faticano a ripagare i debiti, con il caso del gruppo Ligresti che è solo l’ultimo di una lunga serie di incubi ricorrenti per le banche, ma farli fallire significherebbe rischiare un pericoloso effetto domino. Quindi non rimane che continuare a sforbiciare. Anche se i tagli già operati non sembrano poi aver generato un gran beneficio e le stesse fusioni che avrebbero dovuto migliorare la concorrenza e, quindi, offrire più scelta al cliente finale e più guadagni alle banche stesse, non sembrano aver rivestito adeguatamente il ruolo di deus ex machina per risolvere i problemi degli istituti e creare vantaggi per tutto il sistema. Tant’è che il dubbio che il problema sia alla radice inizia a serpeggiare: la concentrazione del credito ha davvero migliorato la concorrenza?  Non è che invece è servita principalmente a scalare le classifiche europee, ma ha dato vita a dei transatlantici difficili da manovrare? Siamo sicuri che se non si cambia modello, i tagli non basteranno mai?

di Giovanna Lantini

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