Tanti tanti anni fa venni a sapere che S non amava l’aglio e detestava chi ne faceva uso.
Conferma, pensai, che niente ci avrebbe mai unito sia per il mio piacere di cucinarlo sia per il piacere di mangiarlo.

Passò del tempo e arrivò M che –  mangiandone molto, con evidente godimento, di cotto e di crudo – suscitò in me una naturale simpatia. Se non che alla fine, nel salutarmi, invece di un prevedibile grazie, negando quel che io avevo visto e inteso come suo naturale piacere per esperienza trentennale di ristorazione, arrivò un suo imprevisto “adesso ti spiego: troppi sapori, troppi profumi, troppo aglio, devi togliere, togliere. Così rischi di sembrare un ristorante etnico”. Bum! Tentai la fuga senza riuscire a muovere più di due passi. Qualcuno a me caro gli mise il dito sotto il naso e gli disse con fare perentorio e conclusivo: “Ma noi siamo toscani, noi siamo e vogliamo essere etnici”.

Col tempo ebbi poi a che fare con W e, nel rendermi conto che non conosceva la necessità dell’utilizzo dell’aglio e di tante altre cose, costringendosi a una dieta che raramente si allontanava – mi informò il solito ben informato – da pizza e Coca-Cola, feci violenza a me stesso per non abbracciarlo ed accarezzarlo, chiedendogli in un intimo bisbiglio: “Oh che ti hanno fatto per ridurti così sordo alla vita?”.

Ora qui a Firenze è arrivato M. È giovane e ha ancora qualche difetto alimentare, ad esempio non ama incomprensibilmente il purè. Mistero, forse gliene hanno fatto mangiare del cattivissimo in tenera età, motivo per cui non ne vuole sapere di riassaggiarlo, si sa come sono fatti i ragazzi. Ma poi, vedrete, si ricrederà. Anche perché, davanti ad una pommarola o a un sugo di carne – dove di aglio ce n’è, eccome – si sdilinquisce, promettendo a se stesso di rimediare all’atto di gola, per la seconda e per me gratificante piattata, con una corsa mattutina fra le ben conosciute vie cittadine.

Non ci crederete ma, diffidando per naturale e familiare tradizione di G, figuriamoci del suo luogotenente I: invece è capitato più di una volta ultimamente di mangiare con straordinario garbo e gentilezza, con passione e attenzione per chi aveva cucinato e per chi lo stava servendo. Non vi nascondo che notte-tempo mi alzo di sobbalzo, come se qualcuno della mia famiglia mi chiedesse di render conto di questi gentili pensieri che ho avuto ed ho nei confronti di I. Ma c’è poco da fare, non riesco a nascondere a me stesso di quanta verità si percepisca nel vedere mangiare.

E, confidenza per confidenza, l’altro giorno ho dato da mangiare a N. Non avevo nessun motivo di particolare simpatia. Ma che soddisfazione vederlo mangiare e ringraziare, capire ed assaggiare, trattenere per ben ripulire, mangiare e alzare gli occhi al cielo quando  – davanti a un pomodorino dei miei assolutamente bruciacchiato e zeppato di violentissimo aglio che trovava rifugio nella asciuttezza determinata dalla ardita lenta cottura – mi ha guardato e mi ha detto nel suo stretto dialetto: ma allora parliamo la stessa lingua. Sì, assolutamente sì, gli ho risposto: si potrebbe discuter su tante cose ma intenderci su tante altre, caro il mio pugliese. E sai, chi mangia aglio campa cent’anni e, magari dopo due mandati, ci si potrebbe trovare tutti, ormai vecchi, insieme a ragionare piacevolmente sui come e perché della vita.

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