Le banche dell’Unione Europea hanno il “mal di pancia“, scriveva sabato il Sole24Ore.

In realtà, a guardare bene la tabella che affiancava l’articolo, si scopre che ben quattro grandi gruppi europei sono clinicamente morti, mentre altri cinque hanno qualcosa in più dell’acidità di stomaco. Il problema sono, ancora una volta, i famigerati titoli “tossici”. Insaccati finanziari che, prima della crisi, tutti si precipitavano a comprare e che adesso valgono meno della carta su cui sono stampati. Il fatto che nessuno li nomini più non significa che si siano misteriosamente volatilizzati. Anzi, sono ancora ben presenti nei bilanci delle banche. Sono “attivi illiquidi”, perché non si riesce a venderli a un prezzo decente. Sul bilancio della banca franco-belga Dexia corrispondono al 598,5% del patrimonio netto. 58,7 miliardi di euro di titoli che, attualmente, non vuole nessuno. Se si provasse a venderli o a valorizzarli in bilancio al prezzo di mercato, Dexia dovrebbe chiudere i battenti e alzare bandiera bianca. Lo stesso si può dire per Deutsche Bank (209% del patrimonio), Crédit Suisse (125%) e UBS (99,9%).

Se queste banche sono ancora in vita lo devono all’intervento dei governi, che hanno comprato titoli spazzatura in cambio di liquidità o sono entrati direttamente nel capitale, ma anche a un Regolamento della Commissione Europea che, in piena crisi (nell’ottobre del 2008), ha cambiato in corsa le regole contabili. Una norma tagliata su misura per le banche che, da un giorno all’altro, sono riuscite ad abbellire i bilanci con un’operazione cosmetica molto semplice. In pratica i titoli tossici, che prima venivano valutati al prezzo di mercato (secondo il principio mark to market), hanno cominciato ad essere valutati in base al prezzo “a scadenza”. Tradotto in termini semplici si potrebbe riassumere così: “avete comprato i titoli tossici a 10 e finché il loro valore saliva li avete potuti valutare in bilancio al prezzo di mercato. Ora che il prezzo è crollato quasi a 0, cambiamo il modo di contabilizzarli: invece di usare il prezzo di mercato facciamo riferimento al valore che avranno quando, a scadenza, ve li rimborseranno (poco più di 10, sempre che qualcuno ve li rimborsi)“.

Nel 2008, tra i maggiori beneficiari di questa norma ci fu proprio Deutsche Bank, che, riconteggiando circa 25 miliardi di asset, registrò un utile trimestrale (al 30 settembre 2008) di 414 milioni di euro contro il previsto rosso di 431 milioni. Ma anche Unicredit non è stata da meno: nella relazione trimestrale al 30 settembre 2008, il Gruppo riportava che “l’applicazione dei nuovi criteri contabili ha determinato un impatto (positivo) complessivo sull’utile ante-imposte di 866 milioni di euro“. Senza la riforma, gli 866 milioni di euro avrebbero dovuto essere classificati come “minusvalenze”, portando a una perdita di bilancio pari a 90 milioni di euro. Lo stesso è successo con la trimestrale di Intesa-Sanpaolo (673 milioni di utile netto contro una perdita attesa di 141 milioni) e con Carige (52 milioni di utile netto contro gli attesi 9 milioni di perdita).

Certo, i titoli tossici di Intesa-Sanpaolo e Unicredit pesano oggi molto meno sul patrimonio netto rispetto a quelli delle banche europee (per entrambi gli istituti siamo sotto il 25%), ma ricordare la cosmesi contabile del 2008 (che ha tuttora effetti sui bilanci) ci aiuta a ridimensionare l’immagine delle banche di oggi. Dal 15 ottobre del 2008, quando fu emanato il Regolamento (CE) N. 1004/2008, molte banche clinicamente morte si sono trasformare in zombie. Altre hanno cominciato a mostrare muscoli che non avevano, e continuano a non avere. Se i mercati dovessero tornare a perdere quota, per molte banche del nord Europa sarebbe la fine. E per i gruppi di casa nostra tornerebbero i dolori. Non solo alla pancia.

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