“L’America è frustrata. Ecco perché i repubblicani vinceranno il 2 novembre”. Robert Stypack non ha l’aria particolarmente frustrata. Gira con una camicia a stelle e strisce, su cui è disegnata un’enorme aquila americana. In spalla ha uno zaino zeppo di bandiere, rigorosamente a stelle e strisce, e non c’è capo del suo abbigliamento su cui non domini la spilla di un politico repubblicano. Ha 33 anni, è disoccupato, passa le sue giornate a casa a curare la figlia. Non ha mai fatto politica prima di queste elezioni. Ma ora, dice, ha trovato un movimento, il Tea Party, “apolitico, fatto di liberal e conservatori, che hanno in comune una cosa: sono stufi dei politici di professione”.

La rabbia per la politica è ciò che ha portato Robert e un altro centinaio di persone (molta gente di mezz’età, pochi giovani, nessun nero, una famigliola di ispanici) a Pomona, villaggio a un’ora da New York City, conosciuto nei paraggi per la produzione di mele e orchidee. Si sono ritrovati in uno strano resort tra i boschi, costruito in stile da baita alpina, a festeggiare la notizia che tutti i Tea Party annunciano in queste ore: 33 candidati vicini al movimento hanno buone probabilità di entrare alla Camera, alle prossime elezioni di midterm; 8 dei loro uomini sono in pole position per il Senato. Uno straordinario successo, capace di influenzare i repubblicani (nonostante l’enfasi bipartisan, tutti i candidati Tea Party si presentano nelle liste repubblicane) e l’agenda del Congresso nei prossimi quattro anni.

“Tagli alle tasse, una croce sopra la sanità di Obama, fondi pensionistici privati”. E’ la ricetta per rimettere in piedi l’America secondo John Pennell, elettricista sessantenne che dirige i Tea Party Patriots della zona. Anche lui non ha mai fatto politica. Anche lui vuole cacciare chi sta a Washington: “Non voterei mai per un politico in carica”. Anche lui, come tanti qui attorno, dice di voler tornare alla Costituzione: “L’amministrazione socialista di Barack Obama, il presidente più incompetente della storia, ha occupato ogni spazio di libertà che i Padri Fondatori avevano immaginato”. John sa anche come ripristinare la Costituzione: “Eliminando il controllo federale su scuola, sanità, trasporto, energia, agricoltura, sanità”.

Mentre John parla, gli altoparlanti cominciano a diffondere le note di “America, the Beautiful”. La gente si alza in piedi, molti – soprattutto i più anziani – cantano con la mano sul cuore. Il coro è guidato da Judith Whitmore, quarantenne bionda e vestita di bianco che gira i meeting conservatori d’America offrendo le sue “Freedom Cerimonies”, canti e poesie che celebrano “la libertà offerta da Dio all’America, perché la diffonda al mondo”. Judith lavora per “We the People Foundation”, il gruppo di Robert L. Schulz accusato di vendere sistemi fiscali per frodare il governo federale (e sospettato di organizzare milizie armate nel nord dello stato di New York). Schulz è qui a Pomona, oggi, insieme a tanti altri pezzi di America conservatrice attirati dall’ascesa del Tea Party. Ci sono i rabbini ortodossi del New Jersey, con i loro stemmi inneggianti al “matrimonio, solo tra un uomo e una donna”. E ci sono i vecchi politici repubblicani, accorsi a ottenere la benedizione del Tea Party. Tra questi, Jay Townsend, vecchio stratega di tante campagne elettorali repubblicane, che davanti a questa gente esalta “la libertà di impresa e la nascita del vostro meraviglioso movimento”.

Townsend, che corre per il seggio di senatore dello stato di New York, ha i capelli candidi impomatati. Indossa un abito blu di sartoria, la cravatta rossa, le scarpe italiane. Non c’entra molto con chi l’ascolta, la vecchia America proletaria erede degli scotto-irlandesi, sospettosi del governo centrale, orgogliosi, sostenitori della supremazia della legge divina. Un’America resa più cattiva dalla crisi, convinta di risolvere i propri problemi fuggendo dallo Stato, e sul cui slancio – popolare, populistico, al momento maggioritario – hanno già messo il cappello nomenclatura repubblicana e think tank conservatori.

di Roberto Festa (inviato negli Stati Uniti)

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Una collaborazione Il Fatto e Dust (on line dal 20 10 2010 su www.dust.it)

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