Il rapporto con i potenti. E’ una delle chiavi del lavoro di giornalista. Di fronte a loro, come di fronte a un vero e proprio metro, si misura l’indipendenza e la libertà. Non solo: l’incontro con i potenti – a volte, raramente, anche grandi – ci dice tanto anche dell’uomo in generale. E di noi in particolare. Aiuta, insomma, a trovare un’unità di misura per la nostra esistenza di tutti i giorni.

Non importa quanto potente sia effettivamente il nostro interlocutore. Non esiste una scala oggettiva di grandezza. Il sindaco di un paese di mille abitanti è un potente anche se ti fa tenerezza se lo confronti con il suo collega della città. Ma subito, come in uno zoom al contrario, la prospettiva si allarga e il sindaco sembra rimpicciolirsi di fronte al primo ministro. E’ un grande? Chissà, a poche centinaia di chilometri dall’Italia nemmeno sanno chi sia e tra una manciata di anni sarà dimenticato. Allora chi? Obama, e chi sennò, e però anche l’uomo più potente del mondo alla fine sta tutto nel suo corpo alto meno di un metro e novanta. E soprattutto deve confrontarsi con la vita che dà a tutto una prospettiva diversa. No, il confronto con la vita (anche quella biologica) non annulla le nostre esistenze, ma le riporta a un’unità di misura diversa.

Non voglio fare filosofia. Per carità, non ne sono in grado. Però l’incontro con i potenti è un’inesauribile fonte di ispirazione. Il giornalista in fondo è una specie di Zelig: stringe le mani ad assassini e presidenti, ha accesso a tutti gli ambienti, ma poi non fa parte di nessuno di essi. Almeno non dovrebbe.

Ma il rapporto con i potenti è una delle chiavi per giudicare i giornalisti (e in fondo gli uomini). L’approccio con un “grande” è un po’ come quello con una bella donna: tu lo conosci, ma lui a malapena sa chi sei. Insomma, hai bisogno in qualche modo di essere accettato da lui. Chiedi, pretendi almeno un riconoscimento. E allora, proprio come con la bellona del liceo, ti trovi sempre ad adottare una delle due tattiche classiche: il pesce fracico oppure il duro. Con una differenza che a molti (me compreso) spesso sfugge: il potente non devi conquistarlo come la bionda compagna di banco. Anzi, sarebbe giusto mantenere le distanze.

Eccole così le due correnti di giornalisti. La prima, più numerosa, è quella di chi cerca di ottenere dalla persona che ha di fronte un attestato di simpatia. Un riconoscimento, appunto. Se il potente ti riconosce – un sorriso in mezzo alla conferenza stampa, una stretta di mano mentre si avvia a Palazzo – è come se lasciasse su di te un po’ della sua polverina. Sei un pochino potente anche tu. Fai parte del suo giro. E qui di nuovo ci sono due correnti di pensiero: c’è chi lo fa per ottenere benefici (e li ottiene, spesso) e chi semplicemente ha bisogno di un aiutino per la sua autostima. Se il sindaco cita un tuo articolo, vuole dire che vali qualcosa. Hai un sigillo.

C’è poi la seconda categoria: i duri. Quelli che al liceo non cagavano nemmeno di striscio la ragazza che in realtà popolava i loro sogni… (E qui mi viene una domanda che già assillava i miei pensieri di adolescente: ma se tu ignori la biondona e lei non si accorge nemmeno che la ignori cosa devi fare?)

Gli ex adolescenti, come me, diventati cronisti rischiano di replicare il meccanismo con il politico di turno. Certo, con sfumature diverse: c’è chi, giustamente, cerca solo di mantenere le debite distanze, evitando quella confidenza comprensibile dal punto di vista umano, ma pericolosa da quello professionale. E c’è chi, proprio come con la compagna del liceo, deve trattare a pesci in faccia il politico di turno perché così sente di essere lui a tenere in mano la situazione.

Non so… avendo fatto errori di entrambi i tipi, mi sono convinto che c’è una terza via. Sembra ovvia, ma nella realtà è complicata da seguire: trattare i potenti semplicemente come persone. In fondo credo che anche a loro sarebbe utile: questa sorta di “dilatazione” della persona su giornali e televisioni tante volte porta a una distorsione dell’Io. Se gli altri ti vedono enorme, anche tu stenti a ricordarti che sei alto un metro e ottanta. E poi ci si deve sentire piuttosto soli a essere sempre trattati come una personaggio, piuttosto che come una persona.

L’approccio giusto – premetto che anch’io stento a metterlo in pratica – credo proprio che sarebbe comportarsi come con una persona qualunque. Ma, credetemi, è dura. E non soltanto perché il cronista è un uomo, con i suoi orgogli e le sue vanità, e come tale ha sempre bisogno di un riconoscimento. Ma il potente spesso mette in atto delle manovre che ti costringono a una specie di incontro di pugilato. Non per difendere il tuo orgoglio, ma per sostenere il tuo ruolo di interlocutore. Addirittura di semplice persona.

Passiamo alla pratica, al concreto, con un caso di scuola: Massimo D’Alema. Trattare con l’ex premier è un incontro di ketch. Ci sono soltanto due posizioni: o ti schiaccia lui oppure lo schiacci tu. Un colloquio piano è difficile, si scivola sempre nella lotta. Almeno con i giornalisti.

Mi ricordo la prima volta che lo incontrai nel Transatlantico di Montecitorio. Avevo da poco cominciato a fare il cronista. Lo vidi in fondo alla sala e mi avvicinai. Strano momento questo, quando l’uomo famoso passa dalla dimensione dell’idea a quella reale, della conoscenza fisica, del contatto con la stretta di mano. Gli occhi e la mente per un attimo stentano a mettere a fuoco l’immagine. Il primo approccio è impacciato. Ecco, ricordo che tentai di essere gentile, addirittura sorrisi che con gente come D’Alema è come una dichiarazione di resa. Feci una domanda, non so quale, probabilmente maldestra. D’Alema senza muovere un sopracciglio sibilò davanti a un gruppo di miei colleghi: “Questa è una domanda proprio stupida”. Vi giuro. E’ davvero così, non sono le vignette. Al che mi costrinse, per rispetto di me stesso e anche del mio giornale, ad andare già al tappeto, come dice il Padrino. Finì con una di quelle discussioni sgradevoli, a stilettate e colpi di clava, che ti lasciano addosso come una sensazione appiccicosa. Ti senti deluso, anche di te stesso.

D’Alema, ma non soltanto lui. E devo dire che questo approccio vagamente sprezzante verso i cronisti è diffuso soprattutto nel centrosinistra. Sarà una forma di compensazione per il potere che non hanno più. Potrei fare una lunga carrellata, a cominciare dal ministro Vincenzo Visco che una volta accolse me e il collega Marco Menduni con questa frase (registrata): “Con voi non parlo perché non mi siete simpatici”. Peccato, perché così spinge il cronista ad assumere una posizione da antagonista che non è  quella giusta. Mi hanno sempre colpito i cronisti amici dei potenti, ma non è giusto nemmeno essere nemici.

I berlusconidi quando li incontri di persona hanno un approccio opposto: morbidi, disponibili e però inafferrabili, amiconi. Democristiani. Tanto che alla fine ti dici: ma in fondo sono persone normali. Perfino lui, Silvio, quando i riflettori sono spenti sorride sempre. Distribuisce pacche sulle spalle. Poi spara una delle sue dichiarazioni e per fortuna ritorni in te.

Ma quando incontri gli uomini famosi – i vip, se volete – qualcosa di più profondo viene messo in discussione. La loro conoscenza, anche brevissima, ti spinge a confrontare la loro vicenda con quella di tante altre persone meno note. Ti costringe a trovarti, appunto, un’unità di misura. In fondo: ti chiedi se il riconoscimento e la fama corrispondano a un valore.

Non esiste ovviamente una risposta oggettiva. Tantomeno io potrei darla. Quando penso, però, alle migliaia (ormai) di persone che ho incontrato per lavoro, bé… quelle che mi hanno lasciato una traccia vera non sono quasi mai state persone note. Mi ricordo Marcello, un ragazzo cui era appena stato investito un fratello, e le prime parole che disse di fronte alla folla inferocita: “Perdono chi lo ha ucciso”. Oppure uno steward dell’Alitalia che appena volava verso l’Africa caricava sé e i poveri piloti di decine di chili di cibo. Portava tutto in un orfanotrofio di Addis Abeba. Pesco a caso, tra decine di volti. Certo, ci sono persone note che mi hanno colpito nel profondo, come l’attore  Marco Paolini. Che si è mantenuto, mi pare, un uomo autentico, nonostante il successo.

No, la fama non corrisponde necessariamente al merito. E però è umano cercare un riconoscimento. Può essere frustrante non averlo. Il guaio, mi viene da dire, è quando cerchiamo il riconoscimento in quanto tale.

Ma sto scivolando nella sociologia. Meglio evitare. Liquidare, però, la fama come una semplice lente distorta è troppo comodo. Può diventare un alibi che nasconde la nostra insicurezza. E poi ci sono davvero uomini noti che hanno qualcosa di diverso. Che con la loro vita si sono guadagnati il riconoscimento pubblico.

E sono proprio quelli, almeno secondo la mia esperienza, che quando li incontri ti ricordano di essere in fondo degli uomini. Come te.

Il destino mi ha portato più di una volta a incrociare Michail Gorbaciov, in tre fasi della sua vita. La prima corrisponde a un ricordo che ha segnato la mia vita di giovane, quando hai bisogno di confondere le tue emozioni in un mare di gente. Quando vuoi sentire la tua forza di ventenne amplificata in quella della folla.

Sono fortunato, sono stato ventenne in un anno di grande speranza: il 1989. Ricordo l’arrivo di Gorbaciov a Milano. In piazza Duomo lo aspettavamo a decine di migliaia, che differenza immensa con la folla contratta, incazzosa che attende oggi i comizi di Berlusconi. Quando il presidente sovietico uscì dall’auto la folla esplose: tutti insieme, come se ci fossimo scambiati un passaparola, urlammo “Gorby, Gorby, Gorby”. Sembrava che la piazza tremasse. Io tremavo di sicuro. Poi andò via in auto. Da dietro al vetro salutava la folla, ma a ognuno di noi pareva che ci avesse riconosciuto.

Dopo cinque anni me lo ritrovai di fronte in una saletta, come per caso, durante una sua visita a Genova: c’erano Michail (ormai ex presidente) e Raissa, durante una pausa degli appuntamenti ufficiali. Gli ricordai Milano. Chissà quanti giorni come quello aveva vissuto, ma disse che anche lui ricordava. Raissa gli mise una mano sotto il braccio, come per compensarlo con quel gesto di un passato che non c’era più. Poi lei mi guardò e mi chiese: “Sono così stanca, le spiace se mi tolgo le scarpe?”. La guardai e d’improvviso, grazie a quel gesto, la sentii umana. Vidi le scarpe, in fondo non diverse da quelle di una donna qualunque, e i piedi gonfi per la stanchezza. E guardai le mani di lui, spesse, grosse, legate avrei detto alla terra. Poi gli occhi franchi che ti guardano sempre in faccia. Restammo a parlare per dieci minuti, in una lingua mista di inglese, russo, italiano e gesti.

Provai a ricordarlo a Gorbaciov quando lo ritrovai un’ultima volta a Roma, in visita al Campidoglio. “Certo che mi ricordo, come sta?”, mi rispose sempre guardandomi negli occhi. Difficile, impossibile che lo ricordasse, uno come lui che ha stretto le mani al mondo. Eppure mi diede un segno di riconoscimento, di rispetto. In quel momento sentii che quel signore con il cappotto scuro e le spalle robuste era la stessa persona che avevo visto a Milano e che aveva cambiato il mondo. E mi sembrò ancora più grande di quel giorno in piazza.

La Repubblica tradita

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