La prima volta che lessi On the road (Sulla strada) di Kerouac avevo, credo, sedici anni. Era una primavera dolce e squisita che mi invogliava a starmene per ore disteso sulla poltrona, con la finestra della stanza aperta per respirare il profumo delle rose del mio giardino. Leggevo le avventure di Sal Paradise e Dean Moriarty tenendo sulle ginocchia un vecchio atlante geografico con i gabbiani in copertina che mi aveva regalato una zia per la prima comunione. Sulla pagina dell’atlante con la grande cartina geografica degli Stati Uniti tenevo traccia dei luoghi, dei passaggi in autostop o dei treni merci sui quali i miei eroi saltavano in corsa nelle vaste luminose notti d’America. Le cartine geografiche sono tutte uguali, eppure nel mio atlante ritrovavo, attraverso l’immaginazione, tutti gli scenari di quel grande romanzo beat. Da allora presi l’abitudine di rileggere On the road ogni anno, allo scoccare della primavera e quando fioriva il mio roseto, rispolverando ogni volta il vecchio atlante con i bordi ingialliti che nelle continue mutazioni del mondo diventava nel frattempo sempre più obsoleto (sul mio atlante c’è ancora l’Unione Sovietica e la Jugoslavia, e tante altre cose che oggi non esistono più).

Leggevo qualche giorno fa su repubblica.it che c’è ora la possibilità di fare il viaggio di On the road attraverso il monitor di un computer e il plug-in di Google Earth, guardando attraverso le telecamere fisse piazzate sulle strade del continente americano, a cominciare dalla mitica Route 66. L’idea è venuta a un internauta, un tipico esponente – lui – della “bit” generation, che evidentemente amava troppo (o troppo poco, sono punti di vista) l’opera di Kerouac. Le tecnologie della contemporaneità, quando rapportate alla letteratura, ci pongono in continuazione dilemmi di senso. La filosofia di Kerouac, del resto, fu tradita molto presto. “Visto quello che è accaduto dopo l’uscita di On the Road”, disse nel 1969, pochi mesi prima di morire a quarantasette anni, “forse sarebbe stato meglio se non avessi raccontato il mio viaggio nelle vene dell’America”. L’uomo Kerouac, insomma, ce l’aveva con la mitologia costruita intorno al suo nome, con la cultura hippie che si espandeva a macchia d’olio per tutto il globo e che portava frotte di saccapelisti nel giardino della sua ultima casa a St.Petersburg in Florida.

In una lettera indirizzata all’amico Neal Cassady (il Dean di Sulla strada) Kerouac scrisse: “Come è strano essere lontani da casa quando la distanza è un intero continente e non sai neanche più dove sia la casa tua e la casa che ti resta è quella che hai in testa”. Ecco, rileggendo questa frase io con la mente ritorno ancora al mio vecchio giardino, e al roseto odoroso che fioriva a primavera, e all’atlante coi gabbiani in copertina, e a quella copia consumata di On the road sulla quale ho viaggiato in ogni primavera dei miei vent’anni per le strade sconosciute d’America. No, non mi serve Google Earth. Quello che mi resta di quel meraviglioso romanzo americano è ancora qui nella mia testa.

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